Verso il nihil

…oggi 26 dicembre alle cinque o alle sei del pomeriggio mio fratello ha accesa la televisione, io stavo in salotto a chiacchierare con mia sorella e mia zia e con Letizia e non ho potuto non sentire  la televisione, c’era Fabrizio Frizzi che parlava e straparlava, stava facendo un gioco con i proverbi, annunciava per la sera un gioco che chiamava  il gioco della zingara, e io senza guardarla ma soltanto ascoltandola ho pensato, ecco, la televisione è nichilista, Fabrizio Frizzi è nichilista, quello che fanno è trascinarci verso il nihil, verso il niente, tutti allegri ci faranno diventare niente, ci annichiliranno; a cosa serve questo orrore, mi sono domandato, a che cosa serve negli scopi di chi lo produce, di chi investe soldi per produrlo, questo orrore che ci viene fornito con l’allegra faccia dell’intrattenimento e il compìto volto dell’informazione; a che cosa serve questo orrore quotidiano, meticoloso, porta a porta, che si concretizza, che si incarna, quasi, ormai in questo oggetto-feticcio del quale tutti siamo preda, nella televisione? Allora all’improvviso ho pensato, mentre Fabrizio Frizzi continuava a dire scemenze: la televisione serve a far dimenticare Auschwitz. A cos’altro può servire, ho pensato, questa miscela di divertimento osceno e sguaiato e di informazione orroristica, se non serve a far dimenticare Auschwitz.

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Come si diventa ciò che si è

Una cosa piccolaUna versione leggermente ridotta di questa recensione di Una cosa piccola che sta per esplodere di Paolo Cognetti (Minimum Fax, 2007) è uscita sul numero di ottobre dell’Indice.

L’erede altera e anoressica di una famiglia benestante, il figlio di un meccanico alcolista e violento, una bambina che scrive racconti sul padre scomparso, un ragazzino che assiste alla separazione dei genitori, una giovane donna che afferma la propria indipendenza: sono i protagonisti dei cinque racconti che compongono Una cosa piccola che sta per esplodere, secondo libro di Paolo Cognetti. Il filo conduttore delle storie è l’adolescenza, che qui non è una palude di tempeste amorose e ribellioni incomprese, bensì una faccenda serissima con la quale si confrontano giovani esseri umani caparbi e silenziosi, talmente seria che sembra rendersene conto anche qualche adulto. L’adolescenza descritta in questi racconti più che un periodo è un movimento: una questione di spinte centrifughe e tempismo, di soglie che definiscono la personalità di chi le attraversa. «Se non sarò me stesso, chi lo sarà per me? Ma se sarò me stesso, chi mai sarò? E se non ora, quando?» recita l’epigrafe tratta dal Talmud di Babilonia.
Forte di una prosa intensa e controllata, Cognetti si immerge nelle vite dei suoi personaggi con umanità e rispetto – il che, per inciso, implica la capacità di dar vita a figure che abbiano personalità e autonomia – e, nello stesso tempo, con la consapevolezza di trovarsi di fronte a un fenomeno naturale. Ed è tra le pieghe di questo spirito naturalista che si muove la suggestione più malinconica di Una cosa piccola che sta per esplodere: la formazione di un’identità forte e l’approdo sulla terra ferma della maturità non sono risultati garantiti; accanto ai protagonisti compaiono personaggi che non mostrano, durante la transizione, l’autocontrollo necessario a vivere un’esistenza ordinata, o che non sembrano avere abbastanza spinta per uscire dall’orbita dell’infanzia e diventare davvero adulti. E l’aspetto più turbante di questo lato oscuro del libro è il velato determinismo che lo pervade, la sensazione che la stessa forza di volontà non sia altro che uno stato di grazia indipendente dalle nostre scelte, una sensazione che si prova anche guardando ai protagonisti. Al termine della sua impresa, Margot di Pelleossa assomiglia alla leader di se stessa che era già da prima: il suo è un salto di comprensione, ma le condizioni per compierlo e saperne trarre vantaggio erano già in lei. Mina, la protagonista del racconto che dà il titolo al libro, reca nel nome la promessa di un’esplosione, ma ciò che vediamo ancor più chiaramente sin dalla sua infanzia è un corpo concentrato e solido, una biglia come quella che lei stessa evocherà in uno dei suoi racconti, una creatura che sembra fatta apposta per attraversare indenne le sventure. In Tutte le cose che non so di lei, il racconto che chiude il libro, Gilda, matrona di una cascina e vedova di un uomo che non era mai cresciuto, sembra attendere il momento della ribellione della figlia Anita con il senso d’inevitabilità con cui un contadino attende una stagione: «Eccola qui, pensa. La bugia. È la bugia che stavo aspettando». Ma sembra sapere altrettanto bene che il suo è un ruolo in una storia già scritta e che il suo tentativo di reprimere la rivolta è destinato a fallire, e tuttavia è necessario: la vittoria di Anita sarà il compimento della sua formazione.

Il significato creativo

Chi dicesse, pertanto, che l’amore altro non è che una «reazione» a posteriori ad un valore avvertito, disconescerebbe la natura del suo movimento, già delineata con tanta precisione da Platone! L’amore non consiste nel «fissare», per così dire, in modo affermativo ed emozionale un valore dato che sta dinanzi a noi. Ma neanche si volge a oggetti dati (o persone reali) esclusivamente in ragione dei valori che essi possiedono e che siano già «dati» ancor prima che s’instauri l’amore. In questa idea c’è ancora una volta quel «fissare» il fatto prettamente empirico, che all’amore è tanto alieno. Nell’amore noi avvertiamo certamente il valore positivo dell’oggetto amato, per esempio la bellezza, la grazia, la bontà d’una persona; ma questo possiamo farlo anche senza alcun amore per quella persona. L’amore esiste solamente là dove al valore già dato «come reale» nella persona si aggiunge ancora il movimento, l’intenzione verso ulteriori valori «superiori» possibili, valori superiori rispetto a quelli già esistenti e dati – ma non dati di già come qualità positive.

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L’integrità della coscienza

E’ uscita su MicroMega un’intervista a Roberta De Monticelli, che è risposta alla risposta di Betori alla prima lettera della filosofa, pubblicata sul Foglio e ridenominata, in rete e fuori, “Abiura di una cristiana laica”. E’ una bella intervista: vi si trovano in forma più espansa quei concetti che ben conosce chi segue De Monticelli da qualche anno e ha letto la Lettera sullo spirito e l’ideologia, concetti che però rimanevano contratti nella lettera pubblicata sul Foglio: il rapporto tra Dio e i valori, il nichilismo della Chiesa contemporanea e anche la risposta a chi si domandava perché De Monticelli ci avesse messo tanto a dare l’addio a qualsivoglia collaborazione con la Chiesa.

«Lungi dal liberarmi da quel dubbio, e pur restando intatta la mia gratitudine per tutti quelli che, fuori e dentro la Chiesa, hanno trovato non infondate le mie domande, la maggior parte delle risposte che ho ricevuto mi ci hanno ricacciata in pieno. Non tanto per le stroncature, che pure ci sono state, quanto perché in troppe quasi-risposte mi si mostrava, lo dico con grande tristezza, il volto bifido dell’ipocrisia, paradossalmente di un’ipocrisia che non sa più di esserlo, che forse è in buona fede – ma questo è anche peggio, perché è come se l’integrità della coscienza fosse incrinata dalla sudditanza del cuore (che è cosa toto genere diversa dall’obbedienza al vero). E poi il dolciastro della melassa solidaristica, a condire il rifiuto di onorare la solitudine della coscienza personale, e la confusa dialettica della relazione a offuscare la negazione della responsabilità ultima che ciascuno porta di se stesso».

L’intervista completa

Maius quam cogitare potest – Seconda meditazione in ottobre

Anima e spirito

Nasce spesso una confusione tra vita dell’anima e vita dello spirito, tra piano psichico e piano spirituale, che è funzionale alla vendita e diffusione di pseudo-dottrine che, non solo oggi, ma anche in passato – perché la tentazione di riduzionismo c’è sempre stata – pretendono di sciogliere nel nome di sapienza un affabulare inutile, pieno di contraddizioni e del quale la legittimazione della contraddizione è parte integrante.
S’è visto come per Schelling dal fondamento oscuro che si specchia in sé nasca la luce  come Verbo, ovvero come Logos. È questo il Logos che ordina il Caos pescando nel fondamento e portando alla luce –  cioè esercitando la creazione perpetua che chiamiamo tempo – le cose e le creature, ordinandole secondo i principi della logica e della fisica, le leggi universali del nostro universo. È la mediazione necessaria alla creazione.

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Nichilismi, infamie

Questa lettera di Roberta De Monticelli è comparsa ieri sul Foglio con il titolo “Abiura di una cristiana laica”.

Questo è un addio. A molti cari amici – in quanto cattolici. Non in quanto amici, e del resto sarebbe un fatto privato. E’ un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica italiana, un addio anche accorato a tutti i religiosi cui debbo gratitudine profonda per avermi fatto conoscere uno dei fondamenti della vita spirituale, e la bellezza. La bellezza delle loro anime e quella dei loro monasteri – la più bella, la più ricca, e oggi, purtroppo, la più deserta eredità del cattolicesimo italiano. O diciamo meglio del nostro cristianesimo. L’eredità di Benedetto, di Pier Damiani, di Francesco, dei sette nobili padri cortesi che fondarono la comunità dei Servi di Maria, di tanti altri uomini e donne che furono “contenti nei pensier contemplativi”. E anche l’eredità di mistici di altre lingue e radici, l’eredità, tanto preziosa ai filosofi, di una Edith Stein, carmelitana che si scalzò sulle tracce della grande Teresa d’Avila.

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Maius quam cogitari potest – Prima meditazione in ottobre

Grazia e giustizia

Desiderio e intelletto, in qualunque ordine li si ponga, danno luogo a due problemi che fanno dubitare della possibilità di equiparare il Logos greco-ontologico al Logos evangelico. Il primo problema è proprio che il Logos greco è ontologico e non psicologico: non è riducibile in termini fisici, l’altro sì; non ha limiti, l’altro sì. Ora, il messaggio evangelico è Logos in quanto messaggio e si rivolge all’essere umano in quanto limitato, anzi, fa della presa di coscienza del limite il cardine del suo insegnamento, e di fatto individua la radice del male psicologico proprio nella pretesa dell’intelletto umano di eguagliare il Logos ontologico. Il secondo problema che si presenta è che, facendo di intelletto o di desiderio la radice dell’Essere, il mondo appare così come lo vorrebbero e se lo rappresentano gli schopenauti: o ordine razionale senza valore intrinseco (intelletto) o infinita catena alimentare intrinsecamente triste; il che non sarebbe di per sé uno scandalo, a dirlo, se fosse vero. Il fatto, però, è che se si segue il consiglio-Logos evangelico entrambe le rappresentazioni – essere come intelletto e essere come desiderio – vengono certo non annullate ma sicuramente integrate nella comprensione, anzi: nella scoperta del mondo come gratuità, come opportunità di vivere, come bene e bello.

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