Emersioni

Per le immersioni vedi qui.

Philip K. DickRitta nel feretro trasparente, avvolta in un effluvio di nebbia ghiacciata, Ella Runciter riposava immobile con gli occhi chiusi, le mani sollevate eternamente verso il viso impassibile. Non vedeva Ella da tre anni, lui, e naturalmente lei non era cambiata. Non sarebbe mai cambiata, del resto, almeno secondo i comuni parametri della vita fisica. Ma ad ogni resurrezione alla semi-vita attiva, ad ogni ritorno di attività cerebrale, per breve che potesse essere, Ella moriva un poco. Ogni volta il tempo che le rimaneva usciva di fase e si attenuava.
Questa consapevolezza rinforzava in lui l’avversione ai risvegli troppo frequenti. Runciter razionalizzava il problema in questo modo; attivarla significava condannarla, e costituiva quindi un peccato contro di lei. E per quanto riguardava i desideri di Ella, espressi prima della morte e durante i primi incontri nella semi-vita… si erano comodamente fatti sempre più nebulosi nella mente di lui. Comunque, lui ne sapeva di più di lei, essendo quattro volte più vecchio. Che cosa aveva desiderato Ella? Continuare a fungere con lui come co-proprietaria della Runciter Associates; un ordine piuttosto vago. Ebbene, lui aveva accolto quel desiderio. Come ora, per esempio. E altre sei o sette volte in passato. Aveva consultato sua moglie ad ogni crisi dell’organizzazione. E stava per fare lo stesso in quel momento.

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Immersioni

Per le emersioni vedi qui.

Stanislaw lem

«Che?… » mormorò Rohan con voce tremante, quasi trattenendo il respiro. Nel gergo degli equipaggi quell’apparecchio era soprannominato stetoscopio dei sepolcri. Nei casi di morte recente, o quando, come ora, non c’era stata decomposizione del corpo, era possibile ascoltare il cervello, o meglio ciò che rappresentava l’ultimo contenuto della coscienza.
L’apparecchio lanciava in profondità nel cranio degli impulsi elettrici, questi percorrevano il cervello secondo le linee di minor resistenza, muovendosi lungo quelle fibre nervose che, prima dell’agonia, avevano costituito una entità funzionale. I risultati non erano mai totalmente sicuri, ma si diceva che talvolta le informazioni ottenute fossero di un’eccezionale importanza. Nei casi come questo, in cui l’avvenire dipendeva dalla spiegazione del mistero del Condor, l’uso dello stetoscopio dei sepolcri era doveroso. Rohan aveva già supposto che il neurologo in realtà non aveva mai contato sulla possibilità di far rivivere l’uomo, ma era venuto soltanto per udire ciò che quel cervello avrebbe potuto comunicargli. Era in piedi, immobile, col cuore che batteva e la bocca stranamente inaridita, quando Sax gli porse il secondo ricevitore. Se questo gesto non fosse stato così naturale e semplice, lui non avrebbe mai osato mettersi la cuffia auricolare. Ma fu incoraggiato dallo sguardo calmo del dottor Sax, che stava inginocchiato presso l’apparecchio e girava il pulsante di amplificazione, a piccoli scatti.

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Nella condizione irrevocabile (2.0)

Go Nagai - Mao Dante
Go Nagai, Mao Dante, 1971

In questo momento mi trovo a due anni da te. È la prima volta che vengo nel futuro a fare la stagione. Fare avanti e indietro ogni giorno mi costerebbe troppo, allora rimango nel futuro anche per due o tre settimane di fila; mangio e dormo qui, nel negozio di articoli per il mare, e ti chiamo una volta durante la pausa pranzo e una volta alla sera. Qui ho incontrato tante persone che conoscevo; poi ho scoperto che alcuni che all’inizio pensavo fossero qui per fare la stagione nel futuro sono invece proprio quelli del futuro, e dopo un po’ ho smesso di chiedermi se sto parlando con il mio conoscente del passato o con quello del futuro.

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Governa ogni cosa

Shiva Nataraja
Shiva Natarâdja, XI secolo

Barbelo, il cielo di Cherania, è alta e gonfia di nubi, un drappo color grafite trapuntato d’indaco attraverso il quale posso vedere i bagliori delle scariche che si sfogano nel pleroma. Ma da questa parte della cortina il fulmine non si manifesta, e io non avevo contemplato questa eventualità mentre la frenesia serrava il mio corpo nella navicella, mentre poneva nelle mie dita la combinazione corrispondente alla rotta per Cherania. E ora la mia ignoranza delle cose del fulmine e della natura del pleroma mi fa vergognare.

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Maciste

 Roberto Bolaño, Un romanzetto canaglia

«Sognai che Maciste era il mio fidanzato e che andavamo a spasso a Campo dei Fiori. Io al principio ero pazzamente innamorata di lui, ma a mano a mano che passeggiavamo Maciste smetteva di sembrarmi una persona interessante. Lo vedevo troppo grasso, troppo vecchio, troppo goffo, lì, a braccetto, mentre i giovani giravano intorno alla statua di Giordano Bruno o fluivano verso via dei Giubbonari o verso piazza Farnese, senza che per questo diminuisse, semmai il contrario, la moltitudine che affollava Campo dei Fiori. E allora io dicevo a Maciste che non potevo più essere la sua fidanzata. E lui girava la testa verso di me e diceva: va bene, va bene, d’accordo, con un filo di voce in cui al principio credevo di cogliere una certa tristezza, un grado di disperazione minima, ma comunque disperazione, insolita in lui, ma in cui poi notavo un accento come di orgoglio, come se Maciste, in fondo, fosse orgoglioso di me.
E allora lui mi diceva addio. E io, sconcertata, non sapevo cosa fare, soprattutto mi faceva paura lasciarlo lì, in mezzo alla moltitudine di Campo dei Fiori, solo e cieco, ma poi mi allontanavo, con rimorsi di coscienza, ma mi allontanavo, e quando ero a una decina di metri mi fermavo e lo osservavo, e allora Maciste si metteva a camminare, dondolandosi (perché in realtà era molto grasso ed era molto grande), e si perdeva fra la gente, anche se questo, a causa della sua altezza, tardava ad accadere e solo verso la fine io smettevo di vedere la sua enorme testa rotonda.
E questo era tutto. Maciste se ne andava e io rimanevo sola e vedevo me stessa intenta a piangere mentre attraversavo ponte Garibaldi, di ritorno a casa. Ormai in piazza Sonnino, pensavo che dovevo cercare un posto dove andare, dovevo procurarmi un alloggio, un nuovo lavoro, dovevo fare cose e non morire.
E allora mi svegliai e quella notte parlai con gli amici di mio fratello e dissi loro che Maciste aveva denaro ma che io non volevo più sapere nulla della faccenda. Parlai della cassaforte inesistente. Dissi che esisteva. Dissi che nessuno poteva aprirla, solo Maciste, e che l’unico modo in cui loro potevano costringerlo ad aprirla era torturandolo, e che neppure questo era sicuro perché Maciste poteva sopportare il dolore al di là di qualsiasi limite che loro, poveri delinquenti di infima categoria, conoscessero. Maciste poteva sopportare il dolore e poteva vivere tutta una vita in mezzo al dolore».

Roberto Bolaño, Un romanzetto canaglia
Traduzione di Angelo Morino

Se tu mi lasciassi dormire

È uscito Funambole di Isabel Farah (Marco Del Bucchia Editore).
Sedici monologhi: Medea, Penelope, Arianna, Clitennestra, Leda, Filomela, Egle, Giocasta, Ersilia, Andromaca, Euridice, Frine, Ermione, Rossane, un’amazzone, Antigone.
Un estratto da “Medea” è stato pubblicato su Scrittori Precari.
Qui ho pubblicato “Penelope” in versione integrale.
Qui sotto pubblico “Ermione” in versione integrale.
Funambole di Isabel Farah si può ordinare da qui.
Venerdì 14, alle 18.30, Isabel, Ilaria Giannini e io lo presentiamo à La Cité, a Firenze.

Ermione

Isabel Farah - Funambole“Sei sveglia?”
“No”.
“A cosa pensi?”
“No, sto dormendo. Non penso a nulla”.

Prendo le foglie da terra, quelle più rosse, non ancora secche. Le raccolgo tutte. Mi vesto d’autunno, poi mi lego un lenzuolo bianco intorno al petto e mi metto al balcone. Verifico che il bianco che ho addosso sia più bianco dei panni stesi. No, i panni sono più bianchi e svolazzano e profumano. Allora faccio a cambio. Ma addosso a me, mi sembra, il bianco diventa giallognolo. Il profumo addosso lo sento forte; mischiato al muschio bianco, c’è l’odore della mia pelle. Insieme non mi piacciono. Mi tolgo il lenzuolo di dosso, allargo le braccia, lascio che il vento mi faccia diventare un aquilone, chiudo gli occhi. Mi sento lei.

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Prose Combat

Simone Ghelli - Voi, onesti farabuttiHo già scritto una volta della mia difficoltà a parlare delle opere di Simone Ghelli, eppure bisogna parlarne, perché Voi, onesti farabutti è un romanzo importante e bisogna dirlo. E però non riesco nemmeno a scegliere un passo da citare per mostrare almeno un esempio di questa scrittura straordinaria; ogni volta che dico “eccolo”, immediatamente sento di fare un torto al resto del romanzo. Forse è anche per questo che, nelle loro (ottime) recensioni, Vanni Santoni di citazioni ne ha portate tre, e Matteo Pascoletti otto. Sono citazioni la cui presenza è più che motivata dai contenuti che Matteo e Vanni hanno scelto di esporre, ma ho l’impressione che di fronte a questo testo si senta forte il bisogno di mostrare al lettore della recensione di cosa si sta parlando, di porgergli un esempio concreto di questa scrittura. Andate a leggerle, quelle recensioni. Di mio vi dico che la lingua di Ghelli è magra e pregna: è stata immersa nella materia e poi strizzata. E rotola: leggere Voi, onesti farabutti è fare l’esperienza di un flusso ossessivo, inarrestabile, e nel contempo accorgersi che è un problema tuo, perché il narratore è saldo, nella tempesta: con quella che per te è una valanga, lui ha imparato a conviverci, a modularla, a dominarla, a farne un potere; è diventata la sua voce: è un mangiafuoco, un fachiro, un’entità in grado di lasciarsi attraversare da elementi che distruggerebbero qualsiasi altra creatura dotata di un’attività psichica. E ti rendi conto che non è altro che il coraggio di uno che contemplava il suo complesso di rocce, e che poi un giorno ha deciso: si è levato in piedi ed è andato via; quando è tornato, aveva con sé un mucchio di corde: ha legato le corde attorno alle rocce, una per una, poi si è voltato, e gettandosi le corde sulla spalla e stringendo tutti i capi tra le mani, ha cominciato a tirare, a camminare trascinando le rocce con sé, con il suo corpo magro. Olio e vino, humus e sangue. Le visioni salgono dai buchi della terra: ho visto una famiglia antica in guerra, asserragliata tra le stoviglie sotto le raffiche della televisione che ogni giorno invade la Polonia. Voi, onesti farabutti è un rifiuto della cattiva astrazione, è il vivere nella carne il riflesso devastante del macrosistema. Un sasso di simboli e sensi che sale dal fondo del corpo, da ciò che lo costituisce e lo trascende, tellurico, a interpretarlo non mi ci provo nemmeno: quando le botte mi arrivano così, il lavoro lo fanno al di sotto della mia coscienza. Lo assumo per come è, e attendo che qualcuno che ne sa a pacchi si prenda la briga di schiavardare questo ordigno.