Destino dell’eroe, storia e avventura

Di tutti i mondi possibili

Pubblico un estratto da “Il segno dell’eroe. Il destino e il filo degli eventi” di Vincenzo Marasco, uno dei nove saggi che compongono Di tutti i mondi possibili, l’interessante antologia di riflessioni sul fantasy curata da Silvia Costantino e uscita pochi giorni fa per Effequ (l’ho recensita qui). Lo scritto di Marasco affronta con mirabile e ipnotica chiarezza una questione cruciale della narrativa fantastica tutta, e assume in più una specifica rilevanza per chi sia interessato alla cosmogonia dell’orfano alieno trattata in Guida ai super robot. JN

La prima cosa che possiamo dire è che, come dispositivo narrativo, il destino funziona all’inverso di come talvolta lo si immagina, ovvero come assicurazione divina della vittoria dell’eroe e del superamento delle prove, con un effetto deresponsabilizzante. Per chiarire questa dinamica si può scomporre il destino in tre componenti. Da un lato troviamo il destino personale, immaginabile, in onore a un’antica tradizione, come daimon, cioè come disposizione o vocazione. Dall’altro lato c’è la Storia che si impone sul singolo, ovvero un intreccio di eventi che avviene di per sé, in cui siamo immersi e che agisce in quanto forza esterna e su cui noi, individui, non abbiamo alcun potere: potremmo definirlo come tyche, un ‘caso’ o meglio un filo, per noi insondabile, degli eventi, che in qualche modo esprime l’intreccio delle azioni di tutte le potenze, umane e sovrumane, presenti nel mondo in cui ci troviamo. Chiamerei infine Avventura proprio lo spazio soggettivo in cui si intrecciano queste due componenti.

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Lundi

Simone Weil

Perdonare. Non si può. Quando qualcuno ci ha fatto del male, si creano in noi determinate reazioni. Il desiderio della vendetta è un desiderio di equilibrio essenziale. Cercare l’equilibrio su di un altro piano. Bisogna andare da soli fino a quel limite. Là si tocca il vuoto. (Aiutati che il ciel ti aiuta…)

Tragedia di coloro che, essendosi inoltrati per amor del bene in una via dove c’è da soffrire, giungono dopo un certo tempo ai propri confini; e si degradano.

Afferrare (in ogni cosa) che c’è un limite e che non sarà possibile oltrepassarlo senza aiuto sovrannaturale (o, altrimenti, di pochissimo) e pagandolo successivamente con un abbassamento terribile.

Una persona amata che delude. Gli ho scritto. Impossibile che non mi risponda quel che ho detto a me stessa in nome suo.
Gli uomini ci debbono quel che noi immaginiamo ci daranno. Rimetter loro questo debito.
Accettare che essi siano diversi dalle creature della nostra immaginazione, vuol dire imitare la rinuncia di Dio.
Anch’io sono altra da quella che m’immagino essere. Saperlo è il perdono.

Da La pesanteur et la grace, di Simone Weil.
Traduzione di Franco Fortini.

Dimanche

423. Nel grande silenzio. Ecco il mare, qui possiamo dimenticare la città. È vero che proprio in questo momento si sente ancora strepitare le campane dell’Ave Maria, – è quel sussurro cupo e folle, eppur dolce, al crocicchio del giorno con la notte, – ma solo per un istante ancora! Ora tutto tace! Il mare si stende pallido e scintillante, non può dire parola. Il cielo offre il suo eterno, muto spettacolo serale con rossi, gialli, verdi colori, non può dire parola. I piccoli scogli e catene di roccia che scendono nel mare, come per trovare il luogo dove si è più soli, non possono dire parola. Questa immensa impossibilità di parlare, che ci coglie all’improvviso, è bella e agghiacciante: ne è gonfio il cuore. O ipocrisia di questa muta bellezza! Quanto bene saprebbe parlare, quanto male anche, se volesse! Il nodo della sua lingua e la sua dolorosa felicità nel viso è una malizia per deridere la consonanza del tuo sentire! Sia pure! Io non mi vergogno di essere lo zimbello di tali potenze. Ma ho compassione di te, natura, perché devi tacere, anche se è soltanto la tua malvagità ad annodarti la lingua: sì, io ti commisero a cagione della tua malvagità! Ah, si fa ancora più silenzio e ancora una volta mi si gonfia il cuore: lo atterrisce una nuova verità, neppure esso può dire parola. Anch’esso deride, se la bocca getta un grido in questa bellezza; esso pure gode la dolce malvagità del tacere. Il parlare, anzi il pensare, mi è odioso: non odo forse, dietro ogni parola, ridere l’errore, l’immaginazione, lo spirito dell’illusione? Non devo irridere la mia pietà? Irridere la mia irrisione? O mare! O sera! Voi siete cattivi maestri! Voi insegnate all’uomo a cessare di essere uomo! Deve abbandonarsi a voi? Deve diventare come voi ora siete, pallido, scintillante, muto, immenso, riposante su se stesso? Eccelso sopra se stesso?

Friedrich Nietzsche, Aurora – pensieri sui pregiudizi morali
traduzione di Ferruccio Masini

Avreste fatto tutti la stessa cosa

È uscito Funambole di Isabel Farah (Marco Del Bucchia Editore).
Sedici monologhi: Medea, Penelope, Arianna, Clitennestra, Leda, Filomela, Egle, Giocasta, Ersilia, Andromaca, Euridice, Frine, Ermione, Rossane, un’amazzone, Antigone.
Un estratto da “Medea” è stato pubblicato su Scrittori Precari.
Qui ho pubblicato “Penelope” in versione integrale.
Qui ho pubblicato “Ermione” in versione integrale.
Qui sotto pubblico “Clitennestra” in versione integrale.
Funambole di Isabel Farah si può ordinare da qui.
Domenica 17, alle 17, Isabel e io lo presentiamo alla Biblioteca San Giovanni di Pesaro

Clitennestra

Isabel Farah - FunambolePentirmene? E perché mai? Non c’eravate voi, giudici, a mettere il mio cuore sulla bilancia, non potete sapere com’era leggero quando Agamennone, grasso come un bue, moriva davanti a me.
Non ci siete voi, giudici, nel mio corpo. Non siete donne, non siete in grado di giudicare una donna.
La verità è che avreste fatto tutti la stessa cosa, la verità è che lo sapete che la legge che predicate non è nemmeno la vostra. È la legge di dio, ma qui non c’è nessun dio. E nelle nostre vene, cari giudici, scorre un colore: rosso. Rosso come la porpora, giudici, come l’amore, come la violenza. Fa caldo, giudici, lo sentite anche voi quest’odore di natura gravida. Quest’odore di seme mi disgusta, insieme al frinire delle cicale. Lo sa Dioniso cosa significa. Lo sa lui che nell’eros c’è un coltello, che il ciclo prevede morte a seguito di vita. L’odore è insopportabile.

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Androide schizoide

Da Philip Dick. Una biografia,  di Emmanuel Carrère, traduzione di Stefania Papetti:

Emmanuel Carrère, "Philip Dick. Una biografia"Ma quello che interessava a Dick, era soprattutto il criterio di discriminazione.
Partì dal principio che gli androidi più perfezionati del 1992 sarebbero stati capaci di superare con successo il test di Turing – cosa che rende inefficace questo test e, secondo Turing, ogni sorta di test: non si sostengono a vita gli esami che sono stati già superati. Tuttavia, Dick non si rassegnò, come Turing suggeriva di fare, ad accoglierli nella comunità umana. E, per evitarlo, fece ciò che Turing considerava un imbroglio, uno di quei tiri tipici degli spiritualisti: introdusse un nuovo criterio. Qual è questo nuovo criterio? Potrebbe essere un test a uso del lettore di questo libro, per assicurarsi che abbia seguito.
Evidentemente, l’empatia. Ciò che san Paolo chiamava carità e considerava la più grande delle tre virtù teologali. Caritas, diceva Dick, sempre pedante. Agapè. Il rispetto della regola d’oro: «Ama il prossimo tuo come te stesso». La facoltà di mettersi al posto dell’altro, di desiderare il suo bene, di soffrire con lui, e, se necessario, di soffrire al suo posto. Ed evidentemente, il ricorso a questo criterio per distinguere l’umano dal replicante avrebbe fatto sorridere Turing, e a ragione. Egli avrebbe fatto notare che numerosi esseri umani non sono affatto caritatevoli e che nulla vieta, in teoria, di inserire nel programma di una macchina dei comportamenti che la convenzione umana attribuisce alla carità.
Ma Dick non era il tipo che, una volta tracciata una frontiera, ci si sieda sopra per declamare delle carinerie umanistiche o religiose. La sua vocazione al contrario consisteva nello spostare continuamente quella frontiera, e, muovendosi lungo le sue linee tratteggiate mobili, stanare le lepri, esercizio che fa di un thriller di fantascienza come Blade Runner un trattato di teologia cibernetica nel vero senso della parola vertiginoso.

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Emersioni

Per le immersioni vedi qui.

Philip K. DickRitta nel feretro trasparente, avvolta in un effluvio di nebbia ghiacciata, Ella Runciter riposava immobile con gli occhi chiusi, le mani sollevate eternamente verso il viso impassibile. Non vedeva Ella da tre anni, lui, e naturalmente lei non era cambiata. Non sarebbe mai cambiata, del resto, almeno secondo i comuni parametri della vita fisica. Ma ad ogni resurrezione alla semi-vita attiva, ad ogni ritorno di attività cerebrale, per breve che potesse essere, Ella moriva un poco. Ogni volta il tempo che le rimaneva usciva di fase e si attenuava.
Questa consapevolezza rinforzava in lui l’avversione ai risvegli troppo frequenti. Runciter razionalizzava il problema in questo modo; attivarla significava condannarla, e costituiva quindi un peccato contro di lei. E per quanto riguardava i desideri di Ella, espressi prima della morte e durante i primi incontri nella semi-vita… si erano comodamente fatti sempre più nebulosi nella mente di lui. Comunque, lui ne sapeva di più di lei, essendo quattro volte più vecchio. Che cosa aveva desiderato Ella? Continuare a fungere con lui come co-proprietaria della Runciter Associates; un ordine piuttosto vago. Ebbene, lui aveva accolto quel desiderio. Come ora, per esempio. E altre sei o sette volte in passato. Aveva consultato sua moglie ad ogni crisi dell’organizzazione. E stava per fare lo stesso in quel momento.

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Immersioni

Per le emersioni vedi qui.

Stanislaw lem

«Che?… » mormorò Rohan con voce tremante, quasi trattenendo il respiro. Nel gergo degli equipaggi quell’apparecchio era soprannominato stetoscopio dei sepolcri. Nei casi di morte recente, o quando, come ora, non c’era stata decomposizione del corpo, era possibile ascoltare il cervello, o meglio ciò che rappresentava l’ultimo contenuto della coscienza.
L’apparecchio lanciava in profondità nel cranio degli impulsi elettrici, questi percorrevano il cervello secondo le linee di minor resistenza, muovendosi lungo quelle fibre nervose che, prima dell’agonia, avevano costituito una entità funzionale. I risultati non erano mai totalmente sicuri, ma si diceva che talvolta le informazioni ottenute fossero di un’eccezionale importanza. Nei casi come questo, in cui l’avvenire dipendeva dalla spiegazione del mistero del Condor, l’uso dello stetoscopio dei sepolcri era doveroso. Rohan aveva già supposto che il neurologo in realtà non aveva mai contato sulla possibilità di far rivivere l’uomo, ma era venuto soltanto per udire ciò che quel cervello avrebbe potuto comunicargli. Era in piedi, immobile, col cuore che batteva e la bocca stranamente inaridita, quando Sax gli porse il secondo ricevitore. Se questo gesto non fosse stato così naturale e semplice, lui non avrebbe mai osato mettersi la cuffia auricolare. Ma fu incoraggiato dallo sguardo calmo del dottor Sax, che stava inginocchiato presso l’apparecchio e girava il pulsante di amplificazione, a piccoli scatti.

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Maciste

 Roberto Bolaño, Un romanzetto canaglia

«Sognai che Maciste era il mio fidanzato e che andavamo a spasso a Campo dei Fiori. Io al principio ero pazzamente innamorata di lui, ma a mano a mano che passeggiavamo Maciste smetteva di sembrarmi una persona interessante. Lo vedevo troppo grasso, troppo vecchio, troppo goffo, lì, a braccetto, mentre i giovani giravano intorno alla statua di Giordano Bruno o fluivano verso via dei Giubbonari o verso piazza Farnese, senza che per questo diminuisse, semmai il contrario, la moltitudine che affollava Campo dei Fiori. E allora io dicevo a Maciste che non potevo più essere la sua fidanzata. E lui girava la testa verso di me e diceva: va bene, va bene, d’accordo, con un filo di voce in cui al principio credevo di cogliere una certa tristezza, un grado di disperazione minima, ma comunque disperazione, insolita in lui, ma in cui poi notavo un accento come di orgoglio, come se Maciste, in fondo, fosse orgoglioso di me.
E allora lui mi diceva addio. E io, sconcertata, non sapevo cosa fare, soprattutto mi faceva paura lasciarlo lì, in mezzo alla moltitudine di Campo dei Fiori, solo e cieco, ma poi mi allontanavo, con rimorsi di coscienza, ma mi allontanavo, e quando ero a una decina di metri mi fermavo e lo osservavo, e allora Maciste si metteva a camminare, dondolandosi (perché in realtà era molto grasso ed era molto grande), e si perdeva fra la gente, anche se questo, a causa della sua altezza, tardava ad accadere e solo verso la fine io smettevo di vedere la sua enorme testa rotonda.
E questo era tutto. Maciste se ne andava e io rimanevo sola e vedevo me stessa intenta a piangere mentre attraversavo ponte Garibaldi, di ritorno a casa. Ormai in piazza Sonnino, pensavo che dovevo cercare un posto dove andare, dovevo procurarmi un alloggio, un nuovo lavoro, dovevo fare cose e non morire.
E allora mi svegliai e quella notte parlai con gli amici di mio fratello e dissi loro che Maciste aveva denaro ma che io non volevo più sapere nulla della faccenda. Parlai della cassaforte inesistente. Dissi che esisteva. Dissi che nessuno poteva aprirla, solo Maciste, e che l’unico modo in cui loro potevano costringerlo ad aprirla era torturandolo, e che neppure questo era sicuro perché Maciste poteva sopportare il dolore al di là di qualsiasi limite che loro, poveri delinquenti di infima categoria, conoscessero. Maciste poteva sopportare il dolore e poteva vivere tutta una vita in mezzo al dolore».

Roberto Bolaño, Un romanzetto canaglia
Traduzione di Angelo Morino

Se tu mi lasciassi dormire

È uscito Funambole di Isabel Farah (Marco Del Bucchia Editore).
Sedici monologhi: Medea, Penelope, Arianna, Clitennestra, Leda, Filomela, Egle, Giocasta, Ersilia, Andromaca, Euridice, Frine, Ermione, Rossane, un’amazzone, Antigone.
Un estratto da “Medea” è stato pubblicato su Scrittori Precari.
Qui ho pubblicato “Penelope” in versione integrale.
Qui sotto pubblico “Ermione” in versione integrale.
Funambole di Isabel Farah si può ordinare da qui.
Venerdì 14, alle 18.30, Isabel, Ilaria Giannini e io lo presentiamo à La Cité, a Firenze.

Ermione

Isabel Farah - Funambole“Sei sveglia?”
“No”.
“A cosa pensi?”
“No, sto dormendo. Non penso a nulla”.

Prendo le foglie da terra, quelle più rosse, non ancora secche. Le raccolgo tutte. Mi vesto d’autunno, poi mi lego un lenzuolo bianco intorno al petto e mi metto al balcone. Verifico che il bianco che ho addosso sia più bianco dei panni stesi. No, i panni sono più bianchi e svolazzano e profumano. Allora faccio a cambio. Ma addosso a me, mi sembra, il bianco diventa giallognolo. Il profumo addosso lo sento forte; mischiato al muschio bianco, c’è l’odore della mia pelle. Insieme non mi piacciono. Mi tolgo il lenzuolo di dosso, allargo le braccia, lascio che il vento mi faccia diventare un aquilone, chiudo gli occhi. Mi sento lei.

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Il cinema del padre di Alvise (estratto)

[…] Sapevo però che da San Marino il padre di Alvise tornava con decine di videocassette VHS, perché questo Alvise lo diceva sempre, e citava Totò, Alberto Sordi e Lino Banfi e diceva che il cinema italiano era il migliore del mondo. Alvise era molto contento di essere italiano. Quando andavamo in pizzeria, Alvise masticava lentamente e mi scrutava; finito di mangiare, alla terza birra, cominciava a spiegarmi quanto fossero bravi gli italiani, tutti, specialmente suo padre. Gli italiani erano emigrati e avevano costruito il mondo, Al Capone, Vito Corleone, Cristoforo Colombo, Alberto Sordi, Roberto Baggio, gli italiani erano creativi e furbi e accoglienti, e poi l’impero romano aveva costruito Roma, e i templi in Sicilia, e le piramidi, e aveva dominato quei coglioni degli inglesi. E qui gli venivano gli occhi lucidi, mi fissava e diceva: «Ti rendi conto? L’impero romano. L’impero romano. Ha dominato quei coglioni degli inglesi. Capisci? Hai capito?» […]

Sull’ultimo numero della rivista “Close Up – storie della visione” (qui il sito) c’è un mio racconto intitolato Il cinema del padre di Alvise.