La Foglia

Questo racconto apparve per la prima volta sul Resto della Pesaresità, poi fu rielaborato per WebSite Horror, un progetto di Marco Candida, e infine fu pubblicato su Orbite Vuote, l’antologia horror di Intermezzi Editore.
La foto qui sotto è di Valentina Mattei.

Accadde nel pomeriggio del 14 aprile, venticinque anni fa. Eravamo nella sala giochi della paninoteca La Boa, sul lungomare di Pesaro. Ale stava giocando a Ghosts ’n Goblins. Io ero accanto a lui.
Mi disse:
– Oh! Lo sai che giorno è oggi?
– Che giorno è oggi? – feci io.
– Non ti ricordi cos’è successo l’anno scorso?
– No.
– Dai: il militare che hanno trovato morto sulla riva del Foglia.
– Non era un militare, era un drogato.
– Era un militare, e lo hanno trovato morto, e senza i piedi.
– Seee, senza i piedi…
– Giuro, – Ale staccò le mani dal videogioco, alzò la sinistra, pose la destra sul petto, riprese i comandi, – senza i piedi.
– Ma non dire cagate, – dissi, – era un drogato che è morto per la droga.

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Interludio sulla compilazione del database di un call center in caso di morte

Il breve pezzo letto alla maratona di chiusura del PerepePè – che è poi una versione modificata di questo. Gli altri tre pezzi letti al PerepePè sono questo, questo e questo.

Il software che usavamo al call center per effettuare le chiamate girava su windows 98, e aveva la faccia, nel quarto del monitor in alto a sinistra. La faccia, che era fatta di quadrati molto grossi, aveva tre espressioni: in attesa, risposta, e numero non funzionante. La faccia in attesa era apatica e gialla; la faccia da risposta era verde, aveva la bocca aperta, sorridente, come chi stia parlando con un amico caro; generava una certa dissonanza cognitiva quando chi aveva risposto al telefono ti stava augurando la morte; la faccia del numero non funzionante era rossa e malinconica.
Dato che lavoravamo cliccando sui numeri di un database estratto dall’elenco telefonico del 1996, ed era il 2007, nostro compito era anche aggiornare il database segnalando quali di loro non fossero più in vita. Gli esercizi, dico, le ditte, cioè spesso gli uomini-ditta, titolari di ex imprese casalinghe, vetrerie nella rimessa, assemblaggi di pc nello scantinato. E in effetti accadeva spesso che la faccia del software diventasse verde e sorridente, e rispondessero le mogli degli uomini-ditta: esperte nel rispondere al telefono: «No, non c’è Gaetano. Dov’è? È al campo santo», espressione che segnala la tendenza della metafisica locale ad attribuire primato al corpo nell’individuare la persona.

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Terzo luogo del nulla

Il terzo dei tre pezzi su Pesaro che ho letto a Va bene uguale, il reading di domenica 30 settembre organizzato dal Quilombo nell’ambito di PerepePè.

(Qui il primo luogo del nulla, qui il secondo luogo del nulla)

Era un tardo pomeriggio d’inverno, un pomeriggio di pioggia. Io e quella che allora era la mia compagna eravamo andati all’Obi perché ci stavamo costruendo la casa dove volevamo abitare.
Camminavamo nei corridoi dell’Obi, e io pensavo: qua c’è un sacco di roba, deve esserci anche quello che vogliamo. Eppure, per quanti oggetti e parti di oggetti io potessi vedere, quegli oggetti mi sembravano tutti uguali, e non riuscivo a trascinarli fuori da lì e figurarmeli come sarebbero stati là dove avremmo dovuto metterli; all’improvviso non capivo a cosa potessero servirci. Guardavo le persone tutte intorno a me e pensavo: hanno una forza immaginativa portentosa, sanno separare uno di questi oggetti da tutti gli altri e immaginarlo in casa propria, o nel proprio giardino, e capire come sta, se gli piace, se gli dice, se c’entra e anzi se contribuisce a creare la suggestione che vogliono, l’immaginario che vogliono, la coerenza e il significato che cercano. E del resto, consideravo, cosa c’è di più facile del prendere un pezzo da un non-contesto e trasferirlo con la fantasia in un ambiente coerente, ispirato a un immaginario? Perché io non ci riesco?
E compresi cosa mi stava succedendo: per me l’Obi era già un contesto, incarnava un immaginario, coerente, totale: l’immaginario della fine degli immaginari, la fine della storia nella sua fase definitiva, il nulla realizzato, ovvero il nulla che non sa di essere nulla. Un luogo pazzesco, l’Obi, che distrugge le cose. Una distruzione al contrario, una distruzione permanente prima che le cose nascano, cose che forse non nasceranno mai e resteranno lì nella loro distruzione, smontate, decontestualizzate, senza la funzione che si suppone debbano avere, ma nella funzione di mostrarsi, esempi di se stesse.

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Secondo luogo del nulla

Il secondo dei tre pezzi su Pesaro che ho letto a Va bene uguale, il reading di domenica 30 settembre organizzato dal Quilombo nell’ambito di PerepePè.

Il Campus si trova a due chilometri da Piazzale Lazzarini, al di là del cavalcavia: vi si arriva procedendo sempre dritto sulla strada che il cavalcavia crea. Dunque è un luogo che con Piazzale Lazzarini è direttamente imparentato, e pare significativo che a metà strada di questi due chilometri che li separano, cioè esattamente a un chilometro dall’uno e dall’altro, si trovi il primo vero non-luogo pesarese, la vela di antimateria: l’Ipercoop.
Se saliamo sulla collina del Campus, quella con il cespuglio di alloro, e ci sediamo rivolti verso il centro, possiamo vedere l’Ipercoop nelle stesse proporzioni con le quali la si vede da Piazzale Lazzarini. Si vede anche la cima di Palazzo Cermatori, da qui, se si guarda oltre i robot schierati di via Goito, titani di pietra e metallo, guerrieri di una tecnologia da guerra fredda.
Io non ho frequentato una delle scuole che compongono il Campus, e su questa collina ci salgo d’estate e di pomeriggio, mentre questo luogo vive d’inverno e preferibilmente al mattino. Quando io vengo qui, questo luogo è svuotato. Sono un viaggiatore dello spazio che sbarca su un pianeta disabitato, e che, scrutando un complesso scolastico, cerca di ricostruire il modo di pensare, le aspettative e le speranze dell’antica civiltà che quel pianeta abitava.

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Primo luogo del nulla

Il primo dei tre pezzi su Pesaro che ho letto a Va bene uguale, il reading di domenica 30 settembre organizzato dal Quilombo nell’ambito di PerepePè. Ho scoperto oggi che il Dolce Vita ha cambiato nome (ora si chiama Mhuu Bar) e ha fatto sparire la vetrata liberty.

Io Piazzale Lazzarini l’ho visto molto tardi. Prima vedevo un mucchio di cose: vedevo Harnold’s, il teatro, la fontana, i portici con il distributore di preservativi, palazzo Cermatori, il Cavalcavia, la Madonna dei Cappuccini, i gazebo dei bar e delle gelaterie, la banca all’angolo con via Curiel, l’entrata della galleria Roma, le palazzine sulla destra e i palazzoni sulla sinistra. Ma Piazzale Lazzarini come entità organica, nel suo insieme, l’ho veduto tardi.
Forse perché quando vengo qui, sono subito investito da un campo di forze fatto di transiti e di attese, di tensione tra le direzioni possibili, di polarità in opposizione. È come immergersi nel mare e sentire la pressione delle correnti. Probabilmente perché questo luogo è l’omologo speculare di Piazzale della Libertà, un confine radicale, che si getta nell’acqua e nell’orizzonte senza il processo graduale della spiaggia. Anche in Piazzale Lazzarini, come là, c’è un limite: qui, dice Piazzale Lazzarini, e lo dice perentorio, qui finisce il centro. E il confine del centro è qua raffigurato come il confine del mondo, segnato da un cavalcavia che si innalza nel cielo.
Allora, nello stesso momento in cui sono riuscito a vedere Piazzale Lazzarini, ho pensato che tutta questa compulsione al movimento deve essere qualcosa che ha a che fare proprio con quel limite, come una turbolenza gravitazionale che si produce in prossimità di un varco dimensionale.

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Franco sta spesso zitto

(un racconto di tredici anni fa)

Franco è alto e muscoloso, e quando sorride assomiglia a DeNiro. È simpatico, e sta spesso zitto. Prima faceva il falegname in una ditta. Era quando lavorava tutti i giorni e si svegliava ogni mattina alle sei e mezza. Tutte le mattine alle sei e mezza sentivo la sua radiosveglia, nell’altra stanza. Tre secondi di radiosveglia, poi una manata. E anche se la sera prima si era spaccato la testa, ed era andato a letto alle quattro con la pelle gialla, alle sei e mezza la radiosveglia saltava su a fare un gran baccano, e poi c’era la manata, il rumore della doccia, la porta di casa che sbatteva e il silenzio che tornava. Mi riaddormentavo.

Circa tre settimane fa mi sono svegliato – saranno state le nove e mezza – e ho trovato Franco che faceva colazione in sala, con un cappuccio e una brioche vuota, di quelle che si comprano in pacchi al supermercato. Gli ho domandato come mai fosse in casa. Mi ha detto che non si era svegliato. Ci ha pensato un po’ e poi ha aggiunto che, visto come stavano le cose, doveva assolutamente correre dal medico a farsi fare il certificato. Mezz’ora dopo si è alzato da tavola, ha preso la giacca dall’attaccapanni ed è uscito di casa. Quella sera siamo stati a casa a guardare la televisione.

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Una mattina, Adamo

È la sveglia del cellulare. È la sveglia del cellulare e devo allungare il braccio per spegnerla. Sono le 7 e 20, realizzo vago, e il sonno che vuole serrare assieme gli occhi e le palpebre è un argomento molto valido, un discorso convincente, persuasivo: devo alzarmi, altrimenti mi riaddormento ed è la fine. E invece mi sono già messo su una strada pessima: mi sono messo a pensare, e i pensieri di un uomo che ha sonno assomigliano al sonno tanto da chiamarlo a loro: desiderano tuffarsi nel sonno, per continuare a parlarsi, evocarsi, rispondersi nella quiete del letto, tanto soffice che scompare a se stessa, questi due cuscini che mi stanno sotto al capo e questa coperta che mi protegge dal freddo della stanza ma non dall’umidità della doccia che si spande per tutta la casa, essendo la casa questa stanza solamente, ed essendo l’acqua, dentro e fuori casa, l’unica realtà che finora non ho visto mancare in questa città, ché piove da quando sono arrivato e un fiume l’attraversa e la doccia schizza sempre dappertutto e l’acqua stagna e quando vado a letto le federe dei guanciali sono umide, o forse non sono umide, forse è a me che sembra tutto umido, ma la mattina mi sveglio con le scapole e il collo indolenziti. La mattina mi sveglio alle 7 e 20 e preparo il caffé e accendo il boiler aspettando che l’acqua si scaldi, e per le 8 cinque minuti in tutto d’acqua calda ce li ho: il tempo di godere il primo getto, poi chiudo il flusso, mi insapono, riapro il flusso e porto via il sapone e conto di godere ancora un poco dopo, ma mentre lascio scivolare via il sapone da in mezzo alle chiappe ecco che si avventa su di me l’acqua fredda e allora è meglio staccare, è meglio uscire e non pensare. Che ore sono? Le 7 e 25. Ho le spalle che mi fanno male e non voglio addormentarmi ma voglio stare qui perché fino alle 8 e 30 non saprò nulla, anzi fino alle 8 e 35. Con uno sforzo della volontà mi sradico dalla coperta e attraverso la stanza saltellando, accendo il boiler, mi rituffo nel letto e mi riavvolgo nella coperta, attendo che passino i brividi. Niente caffè, questa mattina, fa lo stesso

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En-Sof Vs Horobi (Idaro no Mechadabu Rumaka 2) 2008 (ri-editing)

Il ciclone si sposta sulla pagina obbedendo a leggi digitali. Là dove passa le lettere sono prese nel vortice e le righe si sciolgono in nuvole bianche e nere. Il ciclone batte il mondo a due dimensioni di Documento1. Ti domandi quali significati assumano le lettere trasformate nel vortice dello screen saver. Il monitor irradia candore sulla tastiera e sulla scrivania di legno. Evoca lo spettro del bicchiere con le penne. Gli occhi ti bruciano. Li strizzi. Quando li riapri sullo schermo c’è ancora la landa di Documento1 sconvolta dalla furia della tempesta. Senti odore di scarpe da ginnastica e ganja. Da quando sei uscito dalla discoteca un allarme monotonico suona impietoso accanto al tuo timpano. Hai la testa appoggiata sulle gambe della ragazza. La ragazza è addormentata, attorcigliata e trasversale, senza cuscino, il viso rivolto al soffitto. Ha gli occhi chiusi ma sembra che guardi in alto. Ha ancora addosso i pantaloni militari e la maglietta NY. Ha un aspetto familiare. Il display della sveglia segna le sei del mattino. Cambi posizione, ti rovesci, abbracci la ragazza, chiudi gli occhi. Cerchi di disseppellire il mondo sonoro che scorre al di sotto dell’allarme monotonico aggrappandoti al rombo di un aereo o alle sirene giù in strada. Ora ricordi che la tribù dei pusher portava abiti costosi firmati Nike e Fila. I chioschi la foraggiavano di panini con salsicce e peperoni, e lattine a due carte e cinque. Le autoradio suonavano musica araba, funk e techno. I lampioni inchiodavano i colori sulla strada. Più in alto si levavano le torri nere. Se ti addormentassi di nuovo, ora, vestito, abbrancicato alla ragazza e al plaid, vi svegliereste all’ora di pranzo, sudati e infastiditi. Consideri che l’allarme monotonico non è spiacevole. Lo assecondi.
L’autobus percorre veloce la strada all’alba. La città si appresta a ruotare con il resto del pianeta. Nella diga silenziosa si stanno aprendo varchi. Tra poco il formicolìo di passi e voci dilagherà tra le architetture. La ragazza siede sulle tue ginocchia. Ha occhi stanchi e rossi che si nascondono dietro i capelli fini. Dietro di lei il cielo s’illumina piano.
– Cosa guardi? – domanda.

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In merito alla terapia

In merito alla terapia
Water, water everywhere

Per quanto il dato fosse già di pubblico dominio grazie all’abbondanza di letteratura sull’argomento, ammetto che senza nemmeno rendermene conto mi aspettavo l’unico oceano indiviso che fin da bambini siamo abituati a immaginare. Invece una volta entrati nell’atmosfera potemmo vedere i fondali più prossimi alla superficie, i continenti di quel mondo, solo più velati d’azzurro dei nostri: aree verdi scuro e marroni, o grigie, ricoperte dalla sottile lastra dell’acqua. Scendemmo ancora, e allora quello che fino a un istante prima era stato il contorno del pianeta divenne il nostro orizzonte.
Ero curioso. Ravioli no, e anche per questo non era contento. Come me non c’era mai stato, ma aveva sempre confessato che al solo pensarci gli venivano i brividi. Il trovarselo concretamente sotto di noi, così pacifico e rasserenante, non sembrava aver dissipato le sue sgradevoli suggestioni. Guardava fisso nell’oblò sotto i nostri piedi mentre dai riccioli biondi due rivoli di sudore gli colavano sul volto pallido e contratto. Tuttavia non erano tempi buoni, del resto oggi non è che siano migliorati, e ci si adattava a fare un po’ tutto. Raramente fare tutto è piacevole e Ravioli non era scemo né paranoico. Eravamo, soprattutto, solo l’ennesima missione, la prima per me e per lui, ma già occorrenza del fenomeno in crescita costante che la gente chiama la Nuova Sensibilità. Ricchi professionisti riempivano i loro giardini imperiali di vestigia, facevano ricerche di scientificità improbabile sull’origine dei loro cognomi, malpagavano volontari per il recupero dei reperti. Quello che si raccontava degli squali e delle loro facoltà ipnotiche non era rassicurante. Persino le loro dimensioni, che i più dicevano ridotte, meno che umane, ne facevano delle creature anomale. Nessuno ne aveva mai catturato né fotografato uno e chi ne parlava sembrava talmente sballato che i più suggerivano di non dar credito alla storia. Talmente sballato, pensai guardando Ravioli che fissava il nulla mentre guardava l’oblò, da provare con il suo stesso comportamento che qualcosa doveva aver necessariamente veduto. Ma questo non glielo dissi a Ravioli. Né scacciai il pensiero, perché nello spazio i compagni ti servono freddi e le leggende ti fanno sopravvivere.

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Nei giorni 2008 (ri-editing)

It’s yourz
The world in the palm of your hand
It’s yourz

Wu-Tang Clan

Era venuto fuori in autobus, alle sei e tre quarti del mattino, mentre andavamo a prendere il treno per Firenze.
Mi aveva domandato:
– Hai spento il fornello?
Lì per lì non avevo capito di cosa stesse parlando. Il fornello. Rimase sospeso in aria senza alcun significato.
– Ah –  dissi poi, – il fornello! Oddio, no. Cioè: non no: non mi ricordo.
– Come non ti ricordi.
Rimanemmo lì a guardarci, aggrappati ai tubi dell’autobus, nella luce blu del primo mattino.
– Prova a ricordarti: devi ricordarti.
– Oddio, non mi ricordo, veramente.
– Cavolo, –  ridacchiò lei – non l’hai chiuso.
– No, no. È solo che non mi ricordo. Vabbè. Non mi ricordo nemmeno di aver messo i pantaloni, ma non sono in mutande. Non preoccuparti, su.
Ma ero io quello preoccupato.

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