Destino dell’eroe, storia e avventura

Di tutti i mondi possibili

Pubblico un estratto da “Il segno dell’eroe. Il destino e il filo degli eventi” di Vincenzo Marasco, uno dei nove saggi che compongono Di tutti i mondi possibili, l’interessante antologia di riflessioni sul fantasy curata da Silvia Costantino e uscita pochi giorni fa per Effequ (l’ho recensita qui). Lo scritto di Marasco affronta con mirabile e ipnotica chiarezza una questione cruciale della narrativa fantastica tutta, e assume in più una specifica rilevanza per chi sia interessato alla cosmogonia dell’orfano alieno trattata in Guida ai super robot. JN

La prima cosa che possiamo dire è che, come dispositivo narrativo, il destino funziona all’inverso di come talvolta lo si immagina, ovvero come assicurazione divina della vittoria dell’eroe e del superamento delle prove, con un effetto deresponsabilizzante. Per chiarire questa dinamica si può scomporre il destino in tre componenti. Da un lato troviamo il destino personale, immaginabile, in onore a un’antica tradizione, come daimon, cioè come disposizione o vocazione. Dall’altro lato c’è la Storia che si impone sul singolo, ovvero un intreccio di eventi che avviene di per sé, in cui siamo immersi e che agisce in quanto forza esterna e su cui noi, individui, non abbiamo alcun potere: potremmo definirlo come tyche, un ‘caso’ o meglio un filo, per noi insondabile, degli eventi, che in qualche modo esprime l’intreccio delle azioni di tutte le potenze, umane e sovrumane, presenti nel mondo in cui ci troviamo. Chiamerei infine Avventura proprio lo spazio soggettivo in cui si intrecciano queste due componenti.


Analizziamo questa relazione. Cominciamo dal destino personale. Possiamo notare che tale destino non si manifesta come qualcosa che si possiede, – allo stesso modo di come possediamo una macchina – né come qualcosa che si ha a prescindere – come si hanno, che so, gli occhi chiari. Nelle storie, il destino personale fa il suo ingresso in varie forme, ma possiede una cifra comune che definirei Eredità. Tale eredità è il marchio che alla nascita definisce la specificità dell’eroe, la sua diversità rispetto agli altri; al contempo, il termine ‘eredità’ esplicita meglio di altri il doppio ruolo che tale marchio esercita, come ‘segno’ sia di una dotazione, sia dell’inserimento in una serie di rapporti determinati. Un buon esempio in questo senso possono essere le saghe degli islandesi, che si aprono spesso con una lunga genealogia, in cui il protagonista compare solo dopo un po’, talvolta dopo molte pagine. […]
La seconda specificazione da operare è che dell’eredità è necessario farsi carico: non è solo questione di diritto di nascita ma va, eventualmente, raccolta. Bisogna in qualche modo ‘meritarsela’: Elrond ci darà sì l’anello di Barahir, ma lo scettro di Annuminas ce lo consegnerà solo quando ci saremo mostrati degni. Per riprendere lo stesso concetto tornando alle saghe, notiamo che solitamente a 12 anni l’eroe compie un gesto che lo qualifica come possessore di quella specifica parte di eredità che caratterizza la sua eccezionalità. È un’eredità quindi che va attivata, un’identità che va riconosciuta se non scelta, e che ha un prezzo: l’abbandono di altre parti di sé (solitamente di quella più ordinata). Bisognerà quindi riconoscersi figli di quella parte, di quei determinati rapporti in determinate storie già esistenti, e farsene carico. Per riassumere, questa dimensione di daimon non si manifesta né come esclusivamente personale né come cosa di cui uno possa disporre, ma come un’esistenza ambigua, al contempo personale e autonoma.
C’è un ultimo punto che va esplicitato. Tale vocazione non va solamente riconosciuta: essa va costantemente confermata, curata e, soprattutto, bisogna rimanervi fedeli. […]

Ogni volta la predestinazione ha bisogno di essere confermata e, ahimé, l’eroe non conosce il piano finale. È qui, quindi, che entra in scena la seconda componente del destino, il filo degli eventi, la Storia.
Anche qui, quello che mi sembra importante sottolineare è che il rapporto tra il seguire/curare la propria vocazione e la Storia non è un rapporto unidirezionale, in cui basta seguire se stessi – la propria vocazione, passione, determinazione – al di là delle avversità. Anzi, l’Avventura si configura proprio come la difficile torsione che dobbiamo dare al daimon nell’equilibrio con la tyche. Possiamo confidare nella nostra vocazione per quanto riguarda la strada da seguire, ma non è facendo affidamento su di essa che possiamo pretendere che le cose vadano come vogliamo. Non possiamo né pretendere da noi stessi la sicurezza del nostro successo né, al contrario di quanto spesso si crede, lo spirito principale dell’Avventura è quello di seguire la propria stella qualunque cosa accada, andando incontro al destino col sorriso sprezzante di chi cerca una bella morte.
La Storia è notoriamente più grande della vocazione singolare. Non importa quanto brillante sia la stella sotto la quale siamo nati, il nostro percorso si svolge in una Storia che non è nostra, che non deteniamo. Siamo sempre in un rapporto di dipendenza con altre forze.