Governa ogni cosa

Shiva Nataraja
Shiva Natarâdja, XI secolo

Barbelo, il cielo di Cherania, è alta e gonfia di nubi, un drappo color grafite trapuntato d’indaco attraverso il quale posso vedere i bagliori delle scariche che si sfogano nel pleroma. Ma da questa parte della cortina il fulmine non si manifesta, e io non avevo contemplato questa eventualità mentre la frenesia serrava il mio corpo nella navicella, mentre poneva nelle mie dita la combinazione corrispondente alla rotta per Cherania. E ora la mia ignoranza delle cose del fulmine e della natura del pleroma mi fa vergognare.

Naturalmente sono al corrente fin dall’età della ragione del fatto che il fulmine è, ma ciò è differente dal comprendere cosa il fulmine è. Non inizia vera comprensione del fulmine se non è il fulmine a sceglierci, e la vergogna che provo ora mi ricorda che la comprensione del fulmine non si può mai esaurire. Fino a pochi anni fa, quando il fulmine aveva già cominciato a manifestarsi nella mia vita ma ancora non mi aveva scelto, la natura del fulmine mi gettava in un profondo imbarazzo: negarne la nobiltà mi sembrava biasimevole e blasfemo, e nello stesso tempo non riuscivo a consentire con tutto me stesso alla sua violenza, la violenza che è nel fulmine. Sono stato scisso per lungo tempo, non volevo pensare fino in fondo i due aspetti del fulmine per non essere costretto a fissare la loro contraddittorietà, la loro irriducibilità, che è tale solo per noi, e non nel pleroma di Barbelo, che è nato dal fulmine e nel quale nascono i modi del fulmine. Quel tempo è passato. Ora so che è necessario accordare consenso alla contraddizione, al paradosso, allo scandalo del fulmine, e stare nella sua contraddizione, nel suo paradosso. Si deve stare nel suo scandalo. Il fulmine è guerra e pace, sazietà e fame, gioia e terrore, grazia e violenza.
La comprensione del fulmine si accresce in modo del tutto peculiare: ogni volta che si viene conquistati da un’ulteriore dimensione della conoscenza, viene rigettato ciò che in precedenza in merito al fulmine si credeva, e tuttavia non si deve assolutamente dire che ciò che si riteneva prima fosse errato. Ciononostante è corretto dire che si può solo credere di conoscere il fulmine mediante quelle parti e quegli attributi del fulmine che evochiamo con l’artificio, e che non inizia vera comprensione del fulmine se non è il fulmine a sceglierci. E si può morire senza che il fulmine ci scelga. O può sceglierci e poi abbandonarci per sempre. O può sceglierci e ucciderci, e a volte io spero che questo sia il mio destino.

Il fulmine mi prese in un giorno perduto tra la primavera e l’estate. Mi trovavo sulla collina del grano, al di là dello stagno degli animali artificiali. La pioggia precipitava da un cielo scuro, seppure infinitamente più chiaro di Barbelo. Gli automi dello stagno, abituatisi alla mia presenza, avevano ripreso a starnazzare, gracidare, frinire. Li ascoltavo steso sulla collina. Grumi di terra e chicchi di grano si erano saldati alla pelle nuda della mia schiena e del mio petto. Fu allora che il fulmine mi prese. Esercitò su di me una violenza inaudita e globale, invase ogni segmento del mio corpo e lo sfibrò, poi esplose e fiorì nel cervello. Mi tenne per un tempo che parve interminabile.
Da allora il fulmine mi ha preso molte volte, e ogni volta che mi ha preso ha rimescolato con brutalità i miei pensieri e tutto ciò che è dentro di me. Spietato è il furore del fulmine. Nei giorni dai cieli più bassi, quando l’aria sapeva di ferro, mi sono arrampicato sulle colline, l’ho provocato con rituali di guerra, con danze e urla, evocazioni del fulmine, invocazioni al fulmine, e il mio corpo è ormai divenuto il ricettacolo del furore, si è trasformato in un’arma del fulmine, plasmata dal fulmine; il fulmine mi ha insegnato a sentire come la mente si nutra del corpo, come il corpo si nutra della mente: sento i tentacoli dell’uno e dell’altra cercarsi, succhiarsi, infilzarsi a vicenda in penetrazioni talvolta saettanti, talvolta lentamente dolorose, tra le quali il fulmine mi ha spesso concesso la grazia. La grazia del fulmine sono i fiori azzurri, complessi, a diverse orbite rotanti, che si aprono nel buio negli ultimi istanti in cui il fulmine esercita la sua brutalità. Quando i fiori compaiono, si spalancano i viali che si inerpicano nel cielo, i viali che partono dalla mia fronte e si inerpicano verso il cielo, e nel cielo raggiungono la mia mente. Che la mente è nel cielo, anche questo il fulmine insegna.

Sono steso sulla sabbia incolore di Cherania, ho le braccia e le gambe divaricate, guardo Barbelo. Per trovare questo punto, che sentivo essere il punto giusto, ho percorso molta strada, lasciandomi la navicella alle spalle. È uno di quei vecchi modelli a proiettile, che quando atterrano rotolano sul fianco, e chi si trova all’interno è scagliato ovunque nell’abitacolo imbottito. In ogni cosa cerco il fulmine, è evidente.
Nel sonno che mi ha còlto durante il viaggio ho avuto un’immaginazione di Barbelo: si schiudeva come due labbra si schiudono, lenta, lasciava intravedere un nucleo, amalgama di viola e verde che si inseguivano e si avvolgevano attorno a un cuore segreto. Mentre ero ipnotizzato dai movimenti dei colori, il fulmine scaturiva dal nucleo di Barbelo e mi penetrava, mi contorceva, bruciava le mie carni, fondeva e separava i miei lembi, pungeva le mie ossa come un milione di aghi, annientava di dolore i miei nervi. Durava tantissimo, come mai è durato e, mentre durava, nella mente vedevo la mia gemella: era percorsa dal fulmine, e sapevo che la sua scossa durava quanto la mia scossa durava. Anche questo il fulmine insegna.
Ma il fulmine non scaturisce. Barbelo, la madre mia che è nei cieli, la madre mia che è il cielo, che più di ogni altra entità è prossima al pleroma, il quale più di ogni altra ipostasi è prossimo al fulmine, continua a essere dolcemente muta, mi accarezza con una brezza il cui profumo fa sgorgare in me il ricordo delle primavere piovose, mi contempla da lontano con tenerezza, talvolta lascia scivolare quaggiù un gorgoglio lieve, rade gocce minuscole, balena qualche luce ancora oltre la coltre. Ma Barbelo non mi concede il fulmine, il fulmine non viene a devastarmi. Mi dispero.

Avrei dovuto sapere, e sapevo, che nessuno può governare il fulmine. Dice la scrittura: non ci è stata data una volontà che si possa applicare all’avvenire. Tutto ciò che nella nostra volontà è inefficace è immaginario. Tutto ciò che in essa è efficace lo è immediatamente: l’efficacia della volontà non si distingue dalla volontà, e la parte efficace della volontà non consiste nello sforzo, che è teso verso l’avvenire, bensì nel consenso, il sì delle nozze. Ora so perché sono venuto qui: sono venuto qui per ricordarmi questo, che non si può governare il fulmine, e che il fulmine governa ogni cosa. Dunque non devo desiderare niente oltre al fulmine, e nel contempo rinunciare al fulmine. Desiderare il fulmine con rinuncia. Ma mentre la vergogna della mia ignoranza cresce, ho voglia di tornare alla Terra, ho voglia di risalire le colline del grano e della pioggia, provocare il fulmine del cielo terrestre con danze e urla, fingere di sapere solo quello, fingere di non sapere ciò che ormai so: che devo rimanere fermo, steso, sotto un cielo lontanissimo che mi sorride e mi ignora, che mi lascia fuori, mi abbandona, si volge altrove, e che non disprezzandomi mi aiuta a disprezzare me stesso. Mi costringo qui immobile, mentre le braccia mi fremono, mentre il collo si tende. Esercito su me stesso una violenza inaudita. E in questa violenza che mi faccio sorge una calma, e questa calma io non l’ho mai provata.

Apro gli occhi e Barbelo è discesa, posso stendere le braccia e sfiorare il gonfiore delle nubi con i polpastrelli. I bagliori delle scariche nel suo pleroma si fanno sempre più ampi, intensi, prossimi. Mentre ciò accade, la mente diventa un teatro nero e sereno dove una piccola cometa d’argento descrive un cerchio, la miniatura di un moto di rivoluzione che mi rende gioioso, fa sorridere la mia anima, e questa calma io non l’ho mai provata.

Governa ogni cosa contiene un’interpolazione dal commento al Pater tratto da L’attesa di Dio di Simone Weil, nella traduzione di Maria Concetta Sala.