Terzo luogo del nulla

Il terzo dei tre pezzi su Pesaro che ho letto a Va bene uguale, il reading di domenica 30 settembre organizzato dal Quilombo nell’ambito di PerepePè.

(Qui il primo luogo del nulla, qui il secondo luogo del nulla)

Era un tardo pomeriggio d’inverno, un pomeriggio di pioggia. Io e quella che allora era la mia compagna eravamo andati all’Obi perché ci stavamo costruendo la casa dove volevamo abitare.
Camminavamo nei corridoi dell’Obi, e io pensavo: qua c’è un sacco di roba, deve esserci anche quello che vogliamo. Eppure, per quanti oggetti e parti di oggetti io potessi vedere, quegli oggetti mi sembravano tutti uguali, e non riuscivo a trascinarli fuori da lì e figurarmeli come sarebbero stati là dove avremmo dovuto metterli; all’improvviso non capivo a cosa potessero servirci. Guardavo le persone tutte intorno a me e pensavo: hanno una forza immaginativa portentosa, sanno separare uno di questi oggetti da tutti gli altri e immaginarlo in casa propria, o nel proprio giardino, e capire come sta, se gli piace, se gli dice, se c’entra e anzi se contribuisce a creare la suggestione che vogliono, l’immaginario che vogliono, la coerenza e il significato che cercano. E del resto, consideravo, cosa c’è di più facile del prendere un pezzo da un non-contesto e trasferirlo con la fantasia in un ambiente coerente, ispirato a un immaginario? Perché io non ci riesco?
E compresi cosa mi stava succedendo: per me l’Obi era già un contesto, incarnava un immaginario, coerente, totale: l’immaginario della fine degli immaginari, la fine della storia nella sua fase definitiva, il nulla realizzato, ovvero il nulla che non sa di essere nulla. Un luogo pazzesco, l’Obi, che distrugge le cose. Una distruzione al contrario, una distruzione permanente prima che le cose nascano, cose che forse non nasceranno mai e resteranno lì nella loro distruzione, smontate, decontestualizzate, senza la funzione che si suppone debbano avere, ma nella funzione di mostrarsi, esempi di se stesse.

Ricordo che, prima di entrare, mi ero fermato un istante sulla soglia dell’Obi, affascinato e insieme inorridito, dal camino da giardino. Questo coso, avevo pensato, è progettato sulla base di chissà quale tradizionale camino da giardino, uno tra i tanti possibili della storia, che è stato scelto e riprodotto in serie, con minime variazioni – talvolta solo nelle dimensioni – esibite come reali differenze. Dodici modelli di camini da giardino che erano tutti lo stesso camino da giardino. Questo oggetto, avevo pensato, discende ovviamente dall’oggetto dal quale discende, ma simulandolo lo distrugge. La manifattura nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Il fintovero, avevo pensato, questo oggetto, questi oggetti sono fintoveri.
Quindi, decisi, non è vero, e gli esseri umani che mi circondano non hanno, esattamente come non la ho io, nessuna capacità immaginativa portentosa; come lei e come me, replicheranno l’Obi nella loro casa; acquisteranno i materiali per la tavernetta, o il ruotone del carro da appoggiare alla fiancata della casa, come a Urbania; un passato che non c’è mai stato, un rustico industriale. E questi pezzi contaminati dal nulla non potranno che contagiare di nulla tutto quello che li circonderà nella loro nuova vita, che sarà solo simulata; pezzi di nulla che trasformano i luoghi in non-luoghi. E nessuno se ne accorgerà, perché anche il vero è definitivamente finto, pensai, mentre, avvicinandoci alla parete delle lampade a muro, vidi un quadrato di erba dell’Obi, che era effettivamente erba, erba vera inscatolata in un quadrato di legno, e messa sul pavimento dell’Obi, e la potevi prendere e installarla nel tuo giardino. O se non hai il giardino, la installi in sala, con il quadrato e tutto.
Giungemmo alla parete delle lampade a muro. Ogni modello di lampada era appeso alla parete, come se tutte quelle lampade fossero state le lampade di quella parete; sei metri di altezza, otto file di lampade, una fila sopra all’altra. Le guardavamo una per una e cercavamo di immaginare come sarebbero state dentro casa nostra. Facevo avanti e indietro davanti alla parete delle lampade, mentre sentivo qualcosa che cresceva dentro di me, che non era ansia, no, era piuttosto una forma attenuata di disperazione. Dicevo: quella, o anche quella; ma la verità è che se indugiavo a guardarne una per un po’, quella perdeva la forma e la sostanza, diventava uguale a tutte le altre, tutte finte, tutte agenti del nulla attraverso le quali il nulla minacciava di infiltrarsi nella nostra casa. A un certo punto la mia compagna si fermò: fissava qualcosa in alto, e senza distogliere lo sguardo sorrise e disse: “Guarda quella come è bella. È steampunk”. Ed era vero: una splendida lampada color del rame, con il braccio flessibile come quello di un robot antico; sembrava uscita dalla seconda rivoluzione industriale, sapeva di vapore; in quel mucchio di fintovero, splendeva di una suggestione concreta, perfetta per la nostra casa, per il nostro gusto, per quello che volevamo ottenere.
Ne prendemmo sei. Mentre eravamo in fila alla cassa, e tenevo la sua mano nella mia, guardai fuori, dove scorreva la pioggia sui camini fintoveri, e mi resi conto che quell’attutita disperazione che non smettevo di sentire cominciava a emanare un confortevole calore, e che stare in quel luogo mi piaceva, quel luogo mi piaceva, anche se non riuscivo a capire come fosse possibile. Ci sono arrivato con il tempo: mi piaceva perché il nulla totale non concede nessun appiglio a due mani congiunte. È facile credere in qualcosa al Beato Sante o agli Orti Giulii, è facile credere in qualcosa quando si vive tra architetture che esprimano una visione del mondo, un’ideologia, una mitologia, o anche solo un’estetica, una narrazione comunque più grande di noi alla quale le nostre piccole storie di esseri mortali possano aggrapparsi, nella quale possano inserirsi come nel naturale corso delle cose. Ma in un non-mondo, niente sostiene le nostre emozioni, niente sostiene le nostre vite e il desiderio di condividerle. Ed è per questo che, quando sono innamorato, adoro andare nei non-luoghi.