Mardi

Max Scheler

Non la colpa di cui si è pentiti, ma solo quella priva di pentimento ha il potere di determinare e vincolare la vita futura. Il pentimento uccide il nucleo vitale della colpa attraverso il quale esso procede. Esso sradica dal centro vitale della persona il motivo e l’azione, l’azione con la sua radice, e rende così possibile l’inizio libero e spontaneo, l’inizio verginale di una nuova fase della vita, che può scaturire dal centro della personalità, non più vincolata, proprio grazie all’atto di pentimento. Il pentimento realizza dunque un ringiovanimento morale. Forze giovani e ancora innocenti dormono in ogni anima. Esse però sono ostacolate, anzi, come soffocate, dall’erbaccia del peso della colpa, che durante la vita si è accumulata e concentrata. […] I buoni propositi, senza una coscienza della forza e della capacità di realizzarli che sia immediatamente connessa con l’atto del proposito, sono proprio quelli con cui è lastricata nel modo più invitante la «strada per l’inferno». Questo significativo proverbio si dimostra vero per la legge secondo la quale ogni buon proposito che non contiene in sé la forza necessaria alla sua realizzazione, non solo conserva la vecchia condizione di sofferenza interiore e tormento interiore dell’anima, dunque è superfluo, ma aggiunge alla persona in questa condizione un nuovo valore negativo, confermando e aggravando la condizione stessa. La via che conduce al massimo disprezzo di sé passa quasi sempre per i buoni propositi non realizzati, che non sono stati preceduti da un giusto pentimento.

[…] Una cosa però non può essere negata, e cioè il fatto che abbiamo una forte inclinazione – se solo ciò fosse possibile – a confondere con l’autentico pentimento, o ad attribuirci come pentimento, ogni situazione di autolesionismo o disgusto verso noi stessi, anche di origine patologica, e in quanto causa di determinate azioni o circostanze. Ma questi modi di ingannare se stessi, che spesso conducono anche a ingannare gli altri, presuppongono sia il fenomeno dell’autentico pentimento sia anche una valutazione positiva di questo fenomeno. Nella loro crudeltà nei confronti di se stessi, nel loro amore patologico del dolore, che «scava con piacere nella sofferenza del peccato», nella loro sete di vendetta contro se stessi, nelle loro condizioni di debolezza morale, nel loro tacito timore, o nel loro forzato rimuginare sul proprio passato, nel loro «sguardo malevolo», che talvolta hanno nei confronti di ogni cosa, così come anche nei confronti di se stessi, gli uomini sono sicuramente inclini a costruire nella fantasia l’immagine, gradita a Dio, di un cuore pieno di pentimento, e a nascondere questi loro vizi segreti o malattie dell’anima sotto l’apparenza di una virtù. Ma questo destino del pentimento (che esso condivide con ogni virtù e addirittura con ciascuna buona qualità), il destino di poter essere recitato di fronte a se stessi e agli altri, non dovrebbe essere per nessuno, che si ritenga psicologo, un motivo per perdere di vista il pentimento stesso che sta dietro a queste sue immagini fallaci. […] Che cos’è però questa «colpa»? È quella qualità «cattiva» che è cresciuta costantemente nella persona stessa, il centro degli atti, attraverso i suoi atti cattivi. La colpa è quindi una qualità, ma non un «sentimento». Il cosiddetto «senso di colpa» si differenzia dagli altri sentimenti solo per la sua relazione intrinseca con questa qualità. Sia che dunque ci si senta o non ci si senta colpevoli, la colpa resta. La finezza o l’ottusità del senso di colpa, ossia la soglia del senso di colpa, sono assai diversi dall’esistenza della colpa e dalla sua intensità. Appartiene infatti agli effetti più oscuri della colpa proprio quello di, per così dire, nascondere se stessa e il sentimento della sua esistenza, mentre cresce. Al contrario, è proprio della crescita dell’umiltà e della santità nell’uomo – come la vita di tutti i santi dimostra – il fatto che il sentimento di colpa si affini proporzionalmente al rimpicciolirsi del suo oggetto, e che quindi le mancanze sempre più piccole vengano percepite come gravi. L’atto di pentimento non si dirige affatto contro il senso di colpa – che piuttosto dilata ed espande –, si dirige invece contro quella qualità oggettiva che è la colpa stessa. Ma si dirige alla colpa «attraverso» il senso di colpa, allo stesso modo in cui l’atto di attenzione spirituale o un’intenzione significante si rivolgono verso un certo oggetto guardandolo o ascoltandolo. Un senso di colpa qualsiasi, quindi, – per lo più all’inizio non ancora determinato quanto alle domande «che cosa?» e «contro chi?» oppure «per colpa di chi?» – deve in ogni caso avviare l’atto di pentimento. Il senso di colpa, però, è solito individuare la sua estensione, collocazione, direzione e profondità – spesso anche il suo oggetto determinato, per esempio questa o quella azione –, solamente durante il pentimento e soltanto attraverso di esso. Se però la colpa è cresciuta così tanto da soffocare, del tutto o in parte, il sentimento stesso della sua esistenza, si dà quel parziale o totale «indurimento» che il pentimento o riesce a rompere solo con grande difficoltà o non vi riesce affatto. Poiché la colpa è una qualità della persona, del centro degli atti umani, che cresce con la persona, dai suoi atti e dalle sue azioni quale suo «completamento», essa è tacitamente presente, finché perdura, in ogni atto che la persona compie. Non sono le conseguenze causali delle cattive azioni, come concrete realizzazioni della natura, a generare necessariamente un male ulteriore; in modo puramente causale possono generare tanto un bene quanto una cosa indifferente. Non esiste in questo senso alcuna causalità morale. Ma la colpa, l’oscura opera di queste azioni nell’anima stessa, entra in tutto ciò che l’uomo vuol fare e fa. Essa lo determina a proseguire nella sua direzione senza che egli lo sappia. In tal senso ogni pentimento per l’azione non è un pentimento immediato su un’azione, bensì è un pentimento per il fatto che la persona è colpevole a causa dell’azione. Il pentimento per ciò che si è (Seins-Reue), tuttavia, resta distinto dal pentimento per l’azione (Tat-Reue) attraverso l’aspetto primario dello stato di valore negativo dell’azione.
Ma che cosa dunque questo colpo del pentimento può contro la colpa? Due cose, che solo esso può e nient’altro all’infuori di esso. Non può fare scomparire la realtà della natura esteriore dell’azione e le sue conseguenze causali, né il carattere malvagio, che le appartiene come azione. Tutto ciò resta nel mondo. Può però uccidere ed estinguere completamente la colpa in quanto all’effetto a posteriori di quest’azione nell’anima dell’uomo – e con ciò la radice di una infinità di nuove cattive azioni e di nuove colpe. Il pentimento annulla veramente quella qualità psichica che si chiama «colpa». Almeno lo può nella sua forma perfetta. Esso spezza pertanto la catena della forza di perseverare nel male, che si costituisce con l’aumentare della colpa degli uomini e delle epoche. Rende così possibile nuovi ed innocenti inizi di vita.

Max Scheler, “Pentimento e rinascita”, L’eterno nell’uomo.
Traduzione di Paola Premoli De Marchi.