PolMed on my back

Nessuno è venuto a cambiare la lampadina del pianerottolo. Forse l’amministratore di condominio si è dimenticato, forse è ai container, o più probabilmente è in ferie: è appena finita la stagione della pioggia, è estate, e lui ha sicuramente un cazzo di cortile da cui godersi il sole. Forse il tecnico che è stato chiamato non se la sente di venire, o forse è in vigore un’ordinanza che vieta di andare per palazzi a cambiare lampadine perché cambiare lampadine non è una priorità. Non ne ho idea, ormai ho perso la cognizione dello stroboscopico attivarsi e disattivarsi delle ordinanze nelle loro varie combinazioni a seconda del tipo di epidemia, della localizzazione e dell’estensione del contagio, della previsione di impatto sul sistema sanitario: esci, no, sta’ a casa, no, va’ a fare la spesa, falla solo in certi giorni, falla negli altri giorni, falla se hai questo cognome, si può uscire solo vicino a casa, no, si può uscire solo per seguire i percorsi convenzionati che escono dal centro abitato e raggiungere le aree che consentono il distanziamento, no, non si può uscire. Un giorno ti lasciano passare per un motivo e una settimana dopo per lo stesso motivo ti fermano, è impossibile sapere sempre tutto e comunque fanno quello che vogliono.


Resta che qui sul pianerottolo è buio perché nessuno è venuto a cambiare la lampadina. Cammino al buio sfiorando il muro con il guanto di lattice, mi muovo verso il lumicino dell’interruttore ora inutile: lì accanto c’è il campanello di Edoardo. Raggiungo l’interruttore, tasto lì intorno con il dito, trovo il campanello, suono.
Silenzio. Però non l’ho sentito uscire. Forse sta dormendo.
Suono di nuovo. Silenzio.
– Edoardo, – sento la mia voce rimbombare nella tromba delle scale, la abbasso un poco, non mi va di essere ascoltato da altri nel palazzo, – Edoardo, sono Roberto, ci sei? Mi serve un favore.
Un rumore. Distante, come se l’appartamento di Edoardo avesse la finestra aperta sul lato opposto alla porta e il rumore venisse dalla strada. Poi un altro rumore, più vicino. Poi la porta che si schiava, con un intervento deciso ma debole. Poi si apre.
Edoardo è in pigiama, un pigiama azzurro con una fantasia di righe verticali formate da minuscoli rombi blu. Sono le cinque del pomeriggio, fa un caldo boia, ed Edoardo indossa un pigiama integrale. La sua pelle sembra più scura del solito, ha la barba in ricrescita, ha ancora un ematoma sullo zigomo sinistro.
– Roberto… sei tu? Dovresti stare nel tuo appartamento.
Ha gli occhi umidi e arrossati, un po’ anneriti sotto, come in debito di sonno. La fronte lucida, le guance lievemente butterate, il livido, il plexiglass lercio della mascherina, la barba incolta bianca e nera: l’insieme trasmette una generale idea di disordine epidermico.
– Certo che sono io, te l’ho detto, e mi vedi.
– È un modo di dire, – dice, mentre getta occhiate inutili al buio della tromba delle scale, – comunque si chiama appartamento per quello.
– Che?
– Si chiama appartamento per quello.
– Sì, no, ho capito cosa hai detto. Ma che vuol dire?
– Si chiama appartamento per quello: serve ad appartarsi. Dovresti appartarti nel tuo appartamento.
– Sì, solo una cosa, – ho la gola secca, parlare mi fa male, cerco di mantenere il tono, – ho un terribile mal di testa. Hai tipo un antidolorifico? Qualche bustina di glok o qualcosa del genere? Vorrei appunto stare nel mio appartamento ed evitare di andare alla farm…
– Stai male? – mi domanda con un lampo di allarme. E si guarda il braccialetto. Cosa guarda? Può vedere il segnale del mio? Cazzo, ovvio, dovevo immaginarlo, è un ausiliario, coglione che sono.
– Ma tu sei un ausiliario? Senti, il recettore di prossimità non lo vede perché in realtà è come se fosse ancora da me, – vedo le sopracciglia di Edoardo aggrottarsi – ma non ti preoccupare, è solo che ieri stava scaricando gli aggiornamenti dei ceppi e si è un attimo impallato – gli mostro il polso, – ma basta lasciarlo fare, è già capitato, prima o poi si riavvia. Non sto male, – mostro i palmi guantati come a discolparmi, devo sembrare il personaggio zoomorfo di un cartoon del novecento, – ho solo il mal di testa, ok? Io ce l’ho sempre, il mal di testa. Tutto qui.
Edoardo tace per due secondi, ha gli occhi a palla, poi si allontana di un passo e all’improvviso parla:
– Come sarebbe si è impallato? Lo hai rotto?
Si abbassa per farmi colpire in volto dalla luce della lampadina della sua saletta, socchiudo gli occhi per reazione, lo vedo che mi scruta con attenzione.
– Non l’ho rotto, cristo. Non l’ho rotto. Si è impallato mentre aggiornava. Se si fosse rotto mi sarei trovato i droni addosso in mezzo minuto, no? Te l’ho detto, probabilmente sta ancora trasmettendo e sono a posto.
– Certo, siccome non ti beccano, allora sei a posto. Bravo, – si sta alterando, – probabilmente sta ancora trasmettendo il tuo stato di ieri. Se era ieri.
– Dio cristo Edo, abbassa la voce.
– Devi andare subito a un posto di blocco a fartelo sistemare. Guarda che passi dei guai brutti.
Alle mie spalle un rumore nuovo e poi nuova luce nell’androne. Mi volto: sul lato opposto del pianerottolo la porta di casa della Castelletti è aperta, da dentro l’appartamento esce la luce, schermata dalla sagoma di lei che sta piantata sulla soglia, le mani guantate sui fianchi, un camicione verde, i capelli ricci ai lati della testa, il volto al buio, imperscrutabile; vedo solo il riflesso della mascherina, ma mi pare di poter decifrare i tratti del rimprovero, poi la Castelletti fa un passo indietro, senza voltarsi, e chiude la porta.
– Dammi un cazzo di glok – sibilo.
– Non ce l’ho un glok, – fa Edoardo, – non ho niente e tu devi andare al posto di blocco più vicino a farti sistemare o cambiare il braccialetto e poi rientrare subito nel tuo appartamento.
– Edo, ok, ci vado, ma prima dammi qualcosa per ‘sto cazzo di mal di testa. Lo so che qualcosa per le mani ce l’hai. Te lo pago.
– Perché non vai allo sportello-farmacia?
– Perché se vado con il braccialetto in queste condizioni non mi danno un cazzo e mi sequestrano finché non viene la polmed a sostituirmelo, e non senza avermi corcato di mazzate.
– Esatto, e infatti devi andare subito a un posto di blocco. Se non stai male dov’è il problema?
– Che ho un cazzo di mal di testa che non riesco nemmeno a parlare, Edo, – mi sento mancare il respiro, la gola mi prude, – e poi sì, la polmed mi fa paura, ok? Mi fanno paura. A te non fanno paura? A me sì. Per stanotte sicuramente il braccialetto si sarà riavviato, vado a fare la fila allo sportello e ti prendo le scorte anche per te, ok? Qualsiasi cosa ti serva, te la vado a prendere io.
– Qualsiasi cosa?
Edoardo fa lampeggiare gli occhi sul mio volto poi distoglie lo sguardo.
– Sì, certo. Anche cose che puoi rivendere, se vuoi.
– Che cosa hai detto?
– E dai, Edo.
– No, no, no, che cosa stai insinuando?
– Niente, Edo, scusa, – chino il capo, mi appoggio con la mano al muro, il prurito alla gola sfiora il dolore, – ho sbagliato, ti chiedo scusa.
Chiude la porta e all’improvviso mi ritrovo al buio. Mi gira la testa, è il buio? Concentro tutti i sensi sul muro ruvido che tasto oltre il lattice del guanto. Mi viene l’istinto di portarmi l’altra mano al volto, mi fermo all’ultimo, uso il polso. La porta si riapre, ma solo di poco. Vedo la testa di Edoardo mettere un terzo di sé nello spazio della porta socchiusa.
– È un antinfiammatorio, – dice.
– Eh?
– Il glok, dico. È anche un antidolorifico, ma è anche un antinfiammatorio.
– Ah, – faccio.
– Ah, – mi fa il verso lui, – lo sai benissimo da solo.
Chiude la porta.
Faccio per girarmi e risalire la parete fino alla mia porta, ma mi sale un moto di rabbia irrefrenabile, mi volto di nuovo verso la porta di Edo e grido:
– Sei ammalato, testa di cazzo. Stai malissimo e si vede. Venduto, ausiliario del cazzo. E tratti me da appestato. Vaffanculo!
Rientro in casa e sbatto la porta così forte che sento il rumore tornarmi dalle finestre aperte.
Urlare mi ha affaticato più del solito, ma il dolore alla gola sembra essersi ridotto. Però avverto strane fitte all’altezza del colon. Certo se fai a caso a tutto non ne esci più. Mi levo la mascherina. Devo distrarmi, decido che ci penserò quando avvertirò sul polso la vibrazione del braccialetto riavviato e vedrò pulsare una luce verde. O rossa. Mi siedo ed è un sollievo, sono debole, ma è anche vero che stanotte ho dormito tre ore, sono sudatissimo e fa un caldo porco. Guardo il monitor del computer dormiente: tondi aloni di bavette, sciami di goccioline. Muovo il mouse e faccio sparire i fantasmi delle secrezioni, al posto loro appare il desktop con la foto di una collina di ciliegi che probabilmente non esiste nemmeno, non si trova da nessuna parte nel nostro mondo. Apro il browser e mi dirigo su Channel2U. Niente horror, fanno quasi tutti schifo: Channel2U praticamente campa con i peggiori film che hanno stazionato tre anni ad abbonamento su ChannelPrime, e lo so che se il film è scadente poi mi annoio e mi ricordo che cercavo di distrarmi.
Cerco un documentario sugli animali, della stessa serie di quello che ho visto ieri sera. Ieri sera ho visto questa storia del libighetto. Il libighetto è un mammifero della Nuova Tinelia, non ho capito se un canide o un roditore, comunque qualcosa che sembra una via di mezzo. Alla fine della primavera, il libighetto costruisce il suo nido, la sua tana. Lo costruisce con delle alghe che stanno a chilometri di distanza dal posto in cui abita, sono proprio delle alghe specifiche che il libighetto è in grado di lavorare quando si seccano, il libighetto non sa fare altro: non sa mettere un pezzo di corteccia sull’altro o scavare una buca, non sa usare altri materiali, per milioni e milioni di anni di evoluzione il libighetto ha imparato a modellare queste alghe che stanno in una palude a decine di chilometri dal bosco in cui abita e quando deve fare il nido va avanti e indietro tipo cento volte tra bosco e palude, perché poi queste alghe sono piccole e il libighetto è grosso quindi ha bisogno di una tana grossa; questo lavoro lo fa il maschio mentre la femmina è incinta. La tana è elaborata, ha due stanze. Quando il maschio finisce questa onerosa missione si intrufola nella stanza più piccola e muore, sistematicamente. Non esiste, o almeno il documentario non ne fa menzione, un maschio di libighetto che non muore, e il documentario non dice, per esempio, che il maschio del libighetto si lascia morire di fame. Dice proprio stremato, il maschio di libighetto muore, quindi indipendentemente dal fatto che fosse sano o malato, grosso o gracile, lui è stremato e muore. Intanto nell’altra stanza si è insediata la femmina gravida, siamo a tipo a una settimana dal parto. A questo punto accade un’altra cosa: su quello specifico tipo di alghe ci sono delle spore che stanno nella palude per dieci mesi all’anno e si distruggono con il calore estivo, a meno che non vengano tirate fuori dall’acqua prima; nel qual caso liberano dei batteri. Batteri letali. Letali solo per il libighetto adulto. Quindi succede che la femmina si infetta e i batteri iniziano a distruggerla dall’interno. Quando è quasi morta, e la sua pelle è diventata ormai sottilissima, la nidiata di piccoli libighetti – di solito due, al massimo tre, a volte uno – inizia a spingere per uscire e sfonda letteralmente la pancia della madre ancora morente, che finirà i suoi giorni in questo modo orribile. Dopo una settimana, i piccoli libighetti, infettati ma immuni dai batteri, entrano nella stanza piccola e iniziano a rosicchiare il cadavere del padre. Il processo nel suo intero dura circa tre settimane, poi, quando il padre è terminato, i piccoli libighetti hanno aperto gli occhi, mettono fuori il muso dalla tana, e iniziano il loro viaggio. Verso dove? Verso la palude. Quando arrivano è più o meno la fine di agosto, il picco di calore è ormai passato e le spore sono state sterminate dal sole. I piccoli libighetti fanno il bagno al tramonto nella palude e rilasciano i batteri che, a contatto con l’acqua fangosa, si trasformano in spore, poi, per via di quel bagno, prendono la febbre e la febbre uccide i batteri che hanno in corpo. Smaltita la febbre tornano al bosco. Dieci mesi dopo saranno cresciuti abbastanza da riprodursi. Quando hanno provato a far accoppiare due libighetti in cattività, non ci sono riusciti. Quando hanno inseminato artificialmente la femmina in cattività, la femmina è morta di parto perché non è strutturalmente in grado di dare alla luce i piccoli, è proprio una questione di varchi, muscoli, proporzioni. Mi piacerebbe se anche altre puntate del documentario fossero avvincenti come quella del libighetto.
Indosso gli auricolari, come tutti non ho voglia di farmi notare. Contribuisco al silenzio di questa afa asfissiante. Tendevo a non esistere anche nel mondo rumoroso di prima, figurarsi in questo silenzio che allaga tutto da anni. I giorni in cui le cose sono cambiate sono l’ultima cosa che ricordo avere la forma di un evento: dopo, tutto è diventato solo una linea piatta e identica a sé stessa. Un giorno hanno dato l’allarme, e il giorno dopo erano tutti in giro, allora il giorno dopo hanno dato un nuovo allarme, e il giorno dopo ancora erano tutti in giro, e poi il giorno dopo ancora è arrivato un terzo allarme e dopo due ore eravamo tutti barricati in casa. Non so perché è andata proprio così, ma dalle case non siamo più usciti.
Uscire, del resto, non è una grande idea. I droni controllano che ogni braccialetto si trovi su uno dei suoi percorsi razionali e giustificati, come recita ogni ordinanza. Ma, anche su quelli, niente ti garantisce che la polmed ti lasci in pace. I posti di blocco te li ritrovi ovunque, e mai dov’erano il giorno prima. E dove non c’è la polmed c’è altra gente: Edoardo è stato malmenato nella piazzetta del supermercato qui dietro. Lo hanno pestato in due, me lo ha detto Gilioli che passava di là. Ho dovuto tirar dritto, ha detto, sai, con le ordinanze. Ha detto che gli cercavano le chiavi, li ha sentiti dire che avrebbero provato tutti i portoni del circondario. Ma evidentemente Edoardo, in qualche modo, lontano dallo sguardo di Gilioli, se l’è giocata, visto che è rientrato in casa e qui non sono mai passati.
Ho gli auricolari addosso e ho fatto partire una puntata del documentario incentrata sulla savana, cerco di non fare attenzione a quel paio di brividi che mi son saliti sulla schiena fino ai lati del collo. Sotto la voce del documentario riconosco il suono di un campanello del palazzo di fronte. Mi tolgo gli auricolari e resto così, fermo con le mani accanto alle orecchie. Rispondono al citofono:
– Sì?
Chi ha suonato dice:
– Corriere.
– Le apro – suono del portone che scatta, – c’è da firmare?
– Non è necessario.
– Allora lo lasci pure lì in fondo alle scale. Ha faticato ad arrivare? C’è la polmed?
– No, qui non c’è nessuno. Anzi mi stavo dom…
Clic. Citofono chiuso.
Non riuscirò mai a vedere questo dannato documentario, non ce la farò mai a non pensare a questo mal di gola, alla febbre che mi sta venendo o che non mi sta venendo, al braccialetto che da un momento all’altro vibrerà. Sono ancora qui, così, con le mani ai lati della testa. Sento il portone del palazzo sbattere, mollo gli auricolari, apro in fretta e furia le imposte, l’aria calda mi investe come un blocco, guardo di sotto: c’è Edoardo, pantaloni lunghi, maglietta a maniche lunghe, si sta muovendo velocemente, le mani in tasca, il capo chino.
– Vai allo sportello?
Lui si volta, mi guarda, e tira dritto.
Andrà allo sportello? Se avesse voluto denunciarmi gli sarebbe bastato chiamare. O forse approfitta, così ha una scusa per uscire. No, gli farebbero passare un guaio anche a lui. No, cazzo, è un ausiliario, non gli fanno passare nessun guaio, esce quando vuole.
– Edo, dove stai andando?
Niente. Svolta l’angolo.
In quel momento mi rendo conto che il corriere che aveva suonato al campanello di fronte mi sta fissando con aria seria. Mi sembra il caso di chiedergli se gli serve qualcosa:
– Hai problemi, capo?
– Tu ne hai? – fa lui.
– Sì, ho uno stronzo che mi fissa dalla strada mentre sono affacciato alla finestra di casa mia.
– Che ti serve allo sportello?
– Fatti i cazzi tuoi altrimenti vengo giù e ti spacco la faccia.
– Vuoi infettarmi?
– Sono pulito, coglione.
– Certo, sei pulito, e ti serve qualcosa allo sportello, e non ci vai tu.
– Ho il mal di testa, coglionazzo.
– Allora vai allo sportello, uomo pulito – fa lui avviandosi verso il furgoncino. Penso velocemente a qualcosa da tirargli in testa ma perdo il tempo. Ora ci sono altre persone alle finestre del palazzo di fronte e del mio. Alcuni hanno il telefono in mano. Mi stanno filmando? Stanno chiamando il TSF? Chiudo le imposte, chiudo la finestra, mi sbarro dentro.
Afferro gli auricolari, ma mi abbandono sulla sedia senza indossarli. Guardo il muro sopra il monitor. Fa un caldo terribile, sono sudato e ho i brividi. Sto male? Non lo so. Magari è il caldo. Resto lì, e penso ancora al libighetto. Il libighetto non sa nulla dell’evoluzione e del grande piano in cui è perfettamente inserito. Se anche fosse in grado di pensare, cosa gli passerebbe per la testa? Cosa penserebbe la femmina di libighetto? Penserebbe: lui e la sua fissa con quelle alghe, chissà da cosa gli viene, e poi quello strano modo di progettare la casa, e ora mi muore così, ora che sto per partorire e ho la febbre alta. La femmina del libighetto non penserebbe: la storia della nostra evoluzione ci ha portati a questo ciclo inevitabile e impersonale, da sempre già deciso, un eterno ritorno che svuota di senso ogni nostro atto. E i piccoli libighetti, dopo la febbre, non ricorderanno nulla, cresceranno disperatamente in fretta, e la memoria di quando erano neonati sparirà. Penso ai bagni che ho fatto nei tardi pomeriggi d’estate, quando l’aria, al ritorno alla riva si faceva più netta, e per tutta la sera sentivi correrti i brividi sulla pelle piacevolmente protetta dal calore della maglia.
Guardo le imposte chiuse. Se le aprissi non cambierebbe molto. Questo appartamento – appartamento – ha tre finestre e danno tutte sulla stessa strada, strettissima: il palazzo di fronte è incollato e il sole qui non entra mai. Sono le sette del pomeriggio. Quanto ci mettono a rilevare un segnale immobile? Dopo quanto tempo il programma prevede l’intervento su un segnale immobile? Quando si è impallato ero sul cesso. Risulto sul cesso, anche se non sanno che è il cesso, credo. Se intervengono dovrò spiegare perché non sono andato a farmelo sistemare. Inizio a pensare che sarebbe quasi meglio se fossi infetto e si riavviasse.
È mentre penso queste cose che sento una brezza lievissima, quasi impercettibile, passare attraverso le imposte e raggiungermi. Un fantasma di vite passate. Un lampo che mi scioglie delle catene attorno al cuore, catene che non sapevo nemmeno più di avere. Sento un sorriso allargarmisi sulla faccia, gli occhi che si fanno grandi. Mi alzo dalla sedia, lento ma determinato. Indosso la mascherina, afferro le chiavi di casa e le lascio cadere nella tasca dei pantaloncini. Le ciabatte mi rallenterebbero: mi metto le scarpe da ginnastica. Ragiono: fino al conservatorio sto andando a fare la spesa, fino a via Castelfidardo sto andando allo sportello tabacchi, fino al primo viale sto andando in copisteria. E poi? Poi niente, quando ero ragazzino andavo dappertutto, conosco ogni cortile, ogni passaggio di taglio, ogni muretto, ogni percorso possibile dalla copisteria al mare. I posti di blocco si vedono, e se sono bravo i droni non vedono me. Mi chiudo la porta alle spalle, pianissimo. Scendo le scale, mi chiudo alle spalle il portone. Continuo a elaborare i percorsi possibili e sono già a trenta metri da casa. Nella piazzetta del supermercato c’è un posto di blocco, sono impegnati con un poveraccio, nemmeno mi vedono, sono oltre il supermercato, poi oltre il tabacchi, con il cuore che batte sempre più forte e sempre meglio. Sono alla copisteria, mi lancio oltre la statale. Cammino lesto ma tranquillo, ora sono uno che abita sul lungomare e sta tornando a casa. Ho i brividi, potrebbe essere il caldo, la camminata sostenuta, il sudore, l’aria aperta sul sudore, non sono più abituato. Poi lo vedo. Il mare. È là, oltre gli ombrelloni radi, quando ero piccolo erano tutti appiccicati, ora sono lontanissimi tra loro, c’è poca gente e si vede che non sono uno di loro, ma penso che se passo l’ultima strada mi leverò le scarpe e sentirò la sabbia passarmi tra le dita dei piedi e camminerò veloce, velocissimo. Il braccialetto manda una vibrazione, poi un bip. Si è riavviato. Lo guardo ma il sole che ora tende a un rosso accecante lo colpisce in pieno e non riconosco il colore della pulsazione. Penso a quel maschio di libighetto, all’acqua che lo avvolge mentre raccoglie le alghe per fabbricare il nido in cui morirà, chissà se ricorda quel primo bagno di quando era piccolo. Entro in spiaggia, mi tolgo le scarpe al volo e le tengo entrambe in una mano, sento le dita dei piedi setacciare la sabbia a ogni passo. Sto correndo. Getto le scarpe. Poi via la mascherina. Il mare blu davanti. Mi tiro su la maglia, non vedo niente, vedo di nuovo, la maglia stretta nella mano, la lancio sulla riva. Sento un ronzio alle mie spalle. Droni. Entro in mare e continuo a correre, con le ginocchia alte, ciaf, ciaf, ciaf, ciaf, ciaf, lascio che la corsa contro l’acqua mi tolga l’equilibro e spingo sull’ultima, sbilanciata falcata proiettandomi in avanti, mi tuffo.