Principi di devozione II (parte 3 di 3)

Ricordi quando uscì Songs Of Faith And Devotion? Avevi tirato fuori di nuovo, chissà da quale cassetto, quel fermaglio per i capelli a forma di conchiglia. Io ero ancora capace di avvertire i contorni netti dei simboli, rileggere distintamente le storie del passato, attribuire correttamente memorie e suggestioni perché la vita era stata ancora breve, fino a quel momento. Arrivai sotto casa tua, ti aspettai all’ombra del pino marittimo, proprio davanti al negozio di dischi. Sando aveva comprato Songs Of Faith And Devotion, che era appena uscito, saremmo andati da lui ad ascoltarlo. Noi avevamo visto solo il video di I Feel You, il singolo che lanciava il nuovo album. Io ero rimasto incollato allo schermo del televisore. Mi faceva impazzire il modo in cui Dave alzava la gamba e batteva le mani. A te piaceva, il singolo, ma non lo reputavi l’evento del secolo. Chissà per quale motivo eri già grande. Certo, anche io di qualcosa mi ero accorto, I Feel You mi diceva che erano cominciati gli anni ’90, più sporchi, più eccitati, più disperati. Guardandolo avevo capito che ero cresciuto e che prima o poi sarei morto. Però pensavo fosse bello, perché pensavo che sarei morto con te. Ancora una volta, per l’ennesima volta, il futuro non voleva presentarsi problematico al cospetto della mia coscienza che, da parte sua, era ancora ben lungi dall’allestire un tribunale. Tutti a casa propria, tutti in pace, i muri belli dritti. Nothing to fear.


Sando ci fece entrare, in casa sua c’era l’odore di casa sua, sempre quello, forte. Mi accorsi che era l’odore di Sando, un odore di uomo che, o aveva sempre avuto, o aveva assorbito dalla casa. Era a torso nudo, con la cicatrice che gli attraversava il torace dal cuore alla scapola. Lo avevano operato: gli avevano infilato un pezzo di plastica nel cuore. Era raggiante, aveva comprato il vinile, ci fece accomodare sul divano, con cura tolse il disco dalla sua busta, lo pose sul piatto e accompagnò la puntina alla seconda traccia.
-Scusa se salto la prima- disse, -tanto hai già visto il video. Piuttosto senti questa.
Non mi sono più ripreso, ma tu volevi andare al mare.

Quell’anno lo spazio e il tempo e tutto l’universo erano giusti, e io diedi loro appuntamento al concerto di Firenze per vivere appieno un’irripetibile alchimia che ancora ero convinto fosse il corretto dover-sempre-essere del cosmo. Come aveva profetizzato Sando, i Depeche eseguirono Fly on the windscreen, un pezzo a sorpresa che risaliva a due tour prima. Morte è ovunque, cantava Dave, ci sono mosche sul parabrezza a ricordarci che potremmo essere spazzati via stanotte. Quell’anno lo spazio e il tempo e tutto l’universo erano giusti e un mese dopo mi avevi chiesto silenziosamente di mettermi nei tuoi panni, ma in quel momento io stavo ascoltando un altro silenzio e non avevo capito, non mi ero spiegato, non avevo accettato perché nulla c’era da accettare, e a rinunciare non avevo ancora imparato. Quell’anno è stato un massacro e tre mesi dopo ero spaesato a Bologna, senza il mare e con il libretto universitario nella tasca. Il mio vagare per Bologna con i Depeche negli auricolari pare sia diventato un topos, ed è difficile descriverlo meglio di come hai fatto quando eri giovane. Non solo pensavi che esprimersi equivalesse a cagare, ma anche non eri stitico. Credo di sapere, comunque, quand’è stato che mi sono morso la lingua.
In via Indipendenza c’era un negozio di dischi dove con mia enorme sorpresa del mondo capitavano le ristampe in cd dei singoli. Non passava giorno che non ci andassi: l’innegoziabile era divenuto di colpo negoziabile, la compulsione aveva di che vivere. La copertina di See You, quella vecchia, mi fece piangere, e il tizio del negozio mi odiava, credo che abbia smesso di far arrivare i cd dei DM perché non sopportava più di avere lì ogni giorno un autistico depresso col cd portatile e la maglietta del Devotional Tour comprata a Firenze. La vita breve mi permetteva anche di provare mistica nostalgia dell’anno prima come fosse una remota età dell’oro. Il paesaggio era cambiato, Construction Time Again era sempre nelle mie orecchie, ogni album uno scrigno preciso di ricordi, internamente coerente. Comprai tutti i singoli che trovavo con il loro bottino di remix, strumentali, meravigliosi inediti. See You, Leave In Silence, Little 15, Enjoy The Silence versione nera e versione blu, The World In My Eyes e molti altri. Riempivo tutto il vuoto che avevo con note che non facevano altro che allargarlo. Comprai tre dei quattro singoli speciali con i live ’83-’84. Poi il negozio chiuse per fallimento, lasciandomi ingiustificatamente senza lo speciale Blasphemous Rumours con i live e la versione di Icemachine dell’84: il disco con nove volte le mani degli equilibristi dei quali l’uno non permetteva all’altro di cadere, che non era mai arrivato. Lo accettai.
Un sabato di primavera tornai a Pesaro, e tornai a CristoRe. Non so cosa mi spinse verso casa tua, una perdita di tempo, un guardarsi avere ricordi, tutto il tempo che ho perso sempre nello stesso modo. Tutto era immerso nella quiete che attende placida l’estate. Il portone si aprì improvviso come un salto del cuore, e uscisti tu. Con te c’era un ragazzo che ti faceva essere radiosa e lontana. Non sapendo che fare del mio panico, non volendo incontrare i vostri sguardi, mi voltai a cercare posticcio rifugio nella vetrina del negozio di dischi. Il cuore mi batteva all’impazzata, mi sentivo la faccia bollente. Constatavo che dal mio cervello era di colpo sparito ogni concetto. Dalla vetrina del negozio un quadrato giallo con dentro un quadrato nero si prestò gentilmente a far da nascondiglio alla mia vista. Vi vidi ripetuta nove volte la foto delle mani degli equilibristi. Il primo dato che riapparve nella mia mente resettata fu che avevo trovato Icemachine, versione live, riarrangiata nell’84, in occasione del tour di Some Great Reward.