Rapporti, no?

Begotti mi chiama alle nove di sera e mi dice:
– Senti, per quella cosa che dicevi tu, si può fare, si può fare. Però bisogna che stiamo attenti. E poi bisogna che tu venga da me, così facciamo un po’ di conti.
– Quando? Domani va bene?
– Domani va bene, vieni alle tre e mezzo.
– Ok, alle tre e mezzo sono da lei.

Raggiungo Rah e andiamo all’Infedele. Prendiamo un nebbiolo.
– Te l’ho postato, te l’ho detto, – fa lui, – hai alzato il tiro, era ora. Lì per lì, quando ho visto New-Clear Wordz ho detto: ecco un bel progetto di Jago. Poi però non mi piaceva: Lan Tze non mi è piaciuto per un cazzo.
– Lan Tze era un sogno, un clima, c’è una contraddizione in fondo a Obiettivi e Sensibili: valorizzzare la scrittura in sé e per sé, come esercizio quotidiano senza pretese, e però cercare le nuove parole, per andare più in fondo: sto sempre a orbitare attorno al nulla come una cazzo di teologia negativa, e poi ’sta cazzo di tesi mi sta uccidendo i sentimenti, mi si è richiuso il terzo occhio, non sento un cazzo, e poi non ho nemmeno il tempo per stenderli, i racconti, e farli fermentare. E poi c’è anche… hai visto CapelliRossi?
– L’ho visto, è molto bello. Però vedi: è bello perché è puro, è genuino, è autentico, ed è anche scritto bene, però manca quella formalizzazione di mestiere, quella forma-racconto che fa lo scrittore consumato.
– Merda Rah, lo capisci che è quello che vorrei riconquistare e non è possibile? Non è più possibile perché la forma ti frega, e la tua spontaneità va a puttane per sempre. Mmuum quella roba ce l’ha nel sangue. Dovrei avere il tempo di ritrovare me stesso, la filosofia mi sta rendendo troppo analitico, troppo scientifico.
– Comunque va bene così – fa Rah, – quando c’è una contraddizione va sempre bene.

E’ l’una e un quarto. Dalle undici e nove sto nel corridoio del terzo piano del dipartimento di filosofia, via Zamboni 38, in attesa di essere ricevuto dal Professor Relatore.

– Vedi, – mi fa, – a me il registro stilistico va anche bene, purché rispetti le regole del lessico e della grammatica; ma devi cercare di essere più analitico, più scientifico: è una tesi di laurea in filosofia, mica un romanzo.
– Sì, sì ha ragione, – faccio io, – ha ragione, però era la prima stesura, dovevo stare attento a non perdere il flusso dell’argomentazione, vedere dove voleva andare a finire.
(Fare il culo a Vlastos mica è semplice, e in generale i kantiani oggi come oggi vincono sempre per principio, guarda i ds alle primarie, quindi è già molto se riesco a far dire a qualcuno che come punto di vista alternativo il mio è ragionevole e in parte, ma solo in parte, condivisibile, e inoltre)
– Riscrivi tutto.
– Agli ordini.

Sono uscito dal 38 di via Zamboni. Bene, se non altro non è irato come un dio omerico. Accendo il cellulare. Il cellulare mi segnala che ha chiamato Begotti. Lo richiamo.
– Mi dica.
– Ascoltami, mi ero completamente dimenticato che oggi alle tre io ho un funerale, sai è una seccatura, ma è un parente. Quindi devi venire alle cinque.
– Agli ordini.

Corro a casa a farmi una specie di pranzo. Fortunatamente ieri ho preparato una valanga di insalata-con-tutto: dovrebbe andarmi bene per altri due pasti, con qualche toast. Chissà se Begotti mi parlerà ancora della chiazza di sangue. Dopo il pranzo crollo sul letto. Mi sveglio automaticamente alle quattro e quarantasette.

Sono le cinque e vado da Begotti. Suono. Mi aprono. Salgo.
– Buonasera, – fa lui, – entra pure.
Non è cambiato di una virgola. Ha sempre settant’anni e l’occhio scaltro. Dietro compare la sua degna signora. Sessant’anni e occhio scaltro.
– Buonasera signor Begotti. Signora.
Sto attento affinché la mia enorme giacca d’aviatore non urti i minuscoli animaletti di cristallo che stanno subito dietro la porta, su un mobiletto giusto giusto ad altezza margine svolazzante di giacca da aviatore. Quando si è aviatori bisogna imparare, giorno dopo giorno, e dolorosamente, a camminare sulla terra.
– Dalla a me, la tua grande giacca – dice Begotti.
Gliela do.
Mi siedo in cucina, accanto a me si siede Begotti, di fronte la moglie.
– Senti, – mi fa lui, – io quella cosa che dici tu, mi sono informato: si può fare. Però se il tuo amico prende il nominativo e conclude lui il contratto dell’appartamento, questo non toglie che tu rimani responsabile dell’affitto per i prossimi due anni, se lui non lo paga. Per legge.
– Come sarebbe? – faccio io, – non so, allora ci devo pensare, poi dovrei anche parlarne con mia madre. Ma come è possibile? Se lui diventa il soggetto…
– E’ così,- fa lui.
– E’ così,- fa la moglie.
– Questo cambia molte cose. Cioè. Lui l’affitto l’ha sempre pagato e so che lo pagherà, però è una questione di principio: io non posso rimanere responsabile di un appartamento in cui non vivo. A marzo mi laureo, lei capisce, pare ci siano delle opportunità, non posso permettermi di perdere il treno.
– Però vedi, – fa lui, – a te ti conosco, so che posso fidarmi, io di questo tuo amico invece non so nulla.
– Sì, sì. Capisco signor Begotti. Al limite possiamo stipulare un contratto noi per cui lui si assume la responsabilità…
– Ah queste son cose tra di voi, ve la vedete voi.
– Sì, certamente, certamente. Ma…
– E non potevo dirtelo per telefono, capisci? Queste sono cose che bisogna dirsi negli occhi.
– E se recedessi dal contratto?
– Vedi. Sul contratto c’è scritto ‘per gravi motivi’, e sono io che decido i gravi motivi, sai? Un lavoro se vuoi lo trovi anche a Bologna, e un dottorato, se sei bravo, e tu sei bravo, no? te lo danno sempre. Io invece, se ti faccio chiudere il contratto, rimango a luglio con l’appartamento vuoto, e a luglio è più difficile trovare gente che ad ottobre: se facessi così per tutti gli appartamenti che ho a Bologna… tu capisci…
– Certo, capisco, ma non è così sempl…
– E poi c’è un’altra cosa. Perché voglio essere giusto nei tuoi confronti. Si tratta di due euro.
– Come?
– Aspetta.
Si alza e va nel corridoio, lo vedo piegarsi faticosamente per aprire un cassetto pieno di documenti e scartabellare.
Rimango solo con la signora Begotti all’altro lato del tavolo.
Mi guarda e sorride.
– Allora come vanno gli studi?- fa lei, -ti laurei?
– Sì, appunto, a marzo.
– Ecco, ecco – torna Begotti con un mucchio di documenti sgualciti tra le mani, – guarda, no perché sai che ci tengo, io voglio essere preciso, non regalo niente, ma sia chiaro che non rubo niente, e mi piace essere giusto. Ora ti faccio vedere. Guarda, guarda qua… ah no, non sono questi.
– Ma si figuri, signor Begott…
– No, no, – torna a scartabellare, – ti faccio vedere che ci sono questi due euro tuoi… Ecco!
Torna al tavolo e comincia ad agitare fogli pieni di scritte in corsivo, in stampato, timbri, velocissimo, – vedi, – me ne mette uno sotto gli occhi, non ci capisco niente –vedi qui sono trentasette centesimi – lo toglie, sotto un altro, – qui alla fine rimangono cinquantasette centesimi, ma più cinque e meno tre fa cinquantanove – un altro – qui sessantaquattro, e qui – un altro – quaranta. Sono due euro.
– Ma non c’era bisogno di…
– No, no – sorride lui, – eccome se c’era bisogno.
Sorrido anche io.
– Se lo dice lei.
– E già. Allora? – mi guarda ghignando.
– Allora cosa?
– Me li dai questi due euro o li devo detrarre dalla caparra?
– Ah, io pensavo… scusi, non avevo capito – apro il portafoglio – guardi ho solo monetine.
– Va bene lo stesso- dice lui fissando le monetine nel mio palmo.
– Ma sono un euro e ventitré.
– Benissimo, detrarrò settantasette centesimi dalla caparra, oppure me li puoi aggiungere al bonifico dell’affitto del prossimo mese. Dammi questi intanto.
Glieli porgo.
– No, no, – accenna col mento alla superficie del tavolo, – mettili lì, ecco, così… dunque – inforca gli occhiali e comincia a contare i centesimi col polpastrello – venti, quaranta, novanta, cento, centoventi, centoventuno, centoventitré. Ecco, aspetta…
Ricicla un foglietto di conti dal pacco di documenti, prende una penna e scrive il mio nome. Sotto scrive “devo al Signor Begotti settantasette centesimi”.
– Ecco – mi porge la penna, – firma.
Firmo.
– Bravo, bravo, – complimenta la signora Begotti con fare materno, – non ti rubiamo altro tempo, allora, ché se sei in tesi avrai da fare. E anche noi ne aspettiamo un altro, – guarda il marito, – quando arriva l’altro?
– Alle cinque e venticinque. Tra due minuti.
Begotti va a riporre i documenti, foglietto volante compreso. Due secondi dopo è già in piedi accanto a me per restituirmi la giacca e accompagnarmi alla porta. Mi alzo.
– Arrivederci, signora Begotti. Arrivederci signor Begotti, le farò sapere.
– Certo, certo- ride lui, – fammi sapere – e mi apre la porta blindata.
– Ah, un’ultima cosa – mi fa mentre sono quasi già sul pianerottolo.
– Mi dica.
– Se decidi di far andare in porto questa faccenda, in qualunque modo tu decida di farlo, mi raccomando di controllare i materassi. Sai, una volta abbiamo dovuto far ripagare un materasso ad una persona perché evidentemente la persona che lo aveva usato aveva avuto rapporti con una donna.
– Ah sì, mi aveva già avvertito – faccio io.
Dietro di lui la moglie mi sorride annuendo col capo.
– Sì, sì, ma… una chiazza di sangue così, capisci? – dice Begotti, e mentre lo dice fa ascendere le mani verso i miei occhi, i pollici  rivolti in basso, gli indici rivolti in alto, a disegnare due sezioni laterali di un ampio cerchio di cui la mia mente dovrebbe completare il perimetro.
La mia mente completa il perimetro. Ineluttabile.
Sposto lo sguardo dalla chiazza al suo volto: Begotti ghigna felice e gli occhi gli brillano. Dice:
– Così, capisci? Una chiazza così. Eh! Eh! Eh! Rapporti, no?