Resa di un recensore di Candida (parte terza)

Marco Candida, Il bisogno dei segreti

La via mistica. Forse di fronte a un mondo, a un corpo e a una morte che reclamano la propria realtà, di fronte alla coscienza piena della nostra transitorietà, è possibile risvegliarsi davvero (dalle manie, dal sogno, dalle paranoie), e amare davvero (se stessi, gli altri), tanto da sacrificare il proprio buon nome e la propria immagine pubblica come se niente ci legasse ad essi. Ora, seguendo le tradizioni mistiche, è possibile ipotizzare che chi si trovi nel pieno della coscienza, ovvero unito con lo spirito, possa trattare se stesso come un altro pur rimanendo uno, cioè possa distaccarsi da sé e amarsi come persona. In questa prospettiva è possibile leggere gli atti di Connie non come un atto di egoismo e un atto di altruismo in contraddizione tra loro, ma come un unico atto altruista, una redenzione di tutti, compresa la propria persona, il frutto di un amore totale e incondizionato verso tutto e tutti, compresa la propria persona. È possibile, allora, che sulla via mistica le due spiegazioni di Manuel siano vere entrambe?

Non mi sembra. Le tradizioni mistiche dicono anche che la coscienza unita con lo spirito non si inganna: da Eraclito in poi, insegnano che il distacco da sé – l’uscire dal centro del proprio ego – e l’intelligenza della realtà vanno di pari passo. Se è dunque possibile diventare affettivamente i genitori di se stessi, non sembra però possibile sdoppiarsiconvincere se stessi del fatto che il mondo sia disgustoso proprio mentre si sta compiendo un atto d’amore. Come interpretazione del Bisogno dei segreti, dunque, la via mistica mi sembra funzionare solo per ciò che riguarda i valori, e certamente il salto spirituale può permettere di liberarsi del narcisismo – il buon nome, l’immagine: l’ego, appunto – ma mi sembra escludere uno sdoppiamento cognitivo, una separazione tra un se stesso che inganna e un se stesso ingannato e ingannabile; senza contare che, dal lato del se stesso che inganna, una promiscuità con la menzogna, pur se a fin di bene, sembra estranea e contraria alla vita realmente spirituale.
L’alternativa è che Connie sia effettivamente convinta che non valga la pena di vivere nel mondo e che non vi sia contraddizione cognitiva tra l’atto apparentemente altruista (disgustare gli altri rinunciando all’amor proprio) e l’atto apparentemente egoista (disgustare se stessi per non volersi più bene e morire in pace, senza rimpianti), fondati entrambi sul vero, votati alla perdita dell’amor proprio (disgustare gli altri, permettersi di disgustarsi, rovinare tutto per non credere di perdere qualcosa di buono con la vita); ma non è una visione troppo nichilista perché il disgustare gli altri possa avere la motivazione che Manuel pretende che abbia: salvarli dal dolore della perdita, fare tutto ciò per il loro bene, compiere un gesto d’amore, cioè avere ancora un sentimento del valore?
Se questo è vero, se è vera una via nichilista – che non avevo considerato nella seconda parte, perché questi post sono un ragionamento che si fa mentre scrivo – il confessare a Manuel che sì, Connie ha agito come ha agito a fin di bene, non è un fallimento del nichilismo? Il fallimento dimostrerebbe che in effetti il bene è realizzabile: e questa non è in fondo una vittoria? Possibile. Ma questo finale, che è anche il giudizio salvifico di una vittima che ama il carnefice e il consenso di un carnefice a quel giudizio, è possibile che serva a nascondere a vittima e carnefice l’essenza gratuita e reale del male, a riporla per l’ennesima volta subito al di sotto del pavimento, nelle zone dei segreti, sotto uno strato di piccole omissioni e minuscole bugie, uno strato talmente sottile che basta un niente per lasciare affiorare ciò che di disgustoso c’è nella vita? Perché non c’è mica bisogno, come dice Connie a Manuel, di uccidere qualcuno o andare là dove il mondo cade a pezzi per provare disgusto per se stessi e distruggere l’immagine del mondo. Eppure tornare a nascondere il male nel segreto, nascondere la sua esistenza a se stessi e agli altri raccontando che era tutta una recita, è pur sempre un atto salvifico, forse un’ipocrisia necessaria. Ed ecco che torniamo al nodo, al paradosso: disgustare se stessi e gli altri non è poi così difficile se è vero che sappiamo essere disgustosi, ma, ancora una volta, nascondere infine il segreto che si è svelato, un segreto doloroso – che sappiamo essere disgustosi – non può essere letto come un atto d’amore, verso sé e gli altri? È lecito, giunti a questo punto, usare il termine // ipocrisia //? E se un atto d’amore è possibile, l’immagine del mondo è distrutta? E se l’immagine del mondo merita di essere distrutta, quest’atto, questo tornare a celare il segreto, non è in realtà un’ultima ipocrisia? Il bisogno dei segreti continua a precipitare rovesciandosi su se stesso. E non è finita.
Perché quel male fatto da Connie, dicevo, quel male era troppo ben fatto, troppo perfetto, emanava troppo compiacimento. E allora mi domando se il disegno di Connie non sia il realizzarsi di un moto che precede la distinzione tra rabbia e amore e nostalgia e violenza, un moto che rabbia, amore, nostalgia e violenza le porta in sé come un unico magma indistinto. Questa è la via che definisco erotanatica: mi domando se il disegno di Connie non sia un unico gesto mosso dal desiderio del contatto più passionale possibile con il mondo e con gli altri, un voler scuotere per sentire tutto ciò che è possibile sentire: il dolore, la compassione per sé, la compassione per gli altri, i corpi, ancora i corpi, la potenza, la cattiveria, la gentilezza, il rimorso. In definitiva, non c’è forse qui proprio tutta la vicendevole esclusione e insieme la strettissima parentela – e quindi il più vasto arco di oscillazione possibile – tra l’empatia e la depressione, tra la compassione e la collera, tra l’attenzione e l’odio del mondo, tra l’amore e la violenza, tra l’interesse e la manipolazione, tra la relazione e il conflitto? E, sul piano cognitivo, non v’è un’oscillazione tra l’essere convinti e il volersi convincere, tra la rabbia della visione e la visione della rabbia? Non c’è qui una contraddizione che non è contraddittoria solo in un unum al di là della realtà, un pozzo oscuro di dinamismo e desiderio che non può che declinarsi solo in un modo o solo nel modo opposto quando sgorga nel reale? E se è vero che deve necessariamente darsi relazione perché vi sia conflitto mentre non è vero il contrario, qual è la reale forza del campo gravitazionale del conflitto, in determinate condizioni? E qual è la reale forza del campo gravitazionale del conflitto in generale, nel più ampio territorio della relazione? E poi. Chi è più folle: chi compie follie in preda alla follia o chi compie follie lucidamente? Sappiamo cosa sentiamo? Cos’è ciò che stiamo facendo, mentre lo facciamo? La via erotanatica non concilia come la via mistica e non rimanda all’infinito come la via nichilista: finisce, e conduce al centro di una contraddizione insolubile, e insostenibile. 
Il bisogno dei segreti è anche tutto questo, è tutte queste domande, e io mi arrendo; questo bel romanzo, che si legge con gusto nell’arco di un pomeriggio, in nemmeno duecento pagine leggerissime e rapidissime mette in gioco talmente tanto e a un tale livello, che la mia somiglia piuttosto a una lotta, e in questa lotta non faccio altro che scoprire quanto e a quale livello questo romanzo mette in gioco. Ma tutto ciò accade in un modo, ed è di questo modo che tenterò di parlare nella quarta parte della Resa di un recensore di Candida.