Se tu mi lasciassi dormire

È uscito Funambole di Isabel Farah (Marco Del Bucchia Editore).
Sedici monologhi: Medea, Penelope, Arianna, Clitennestra, Leda, Filomela, Egle, Giocasta, Ersilia, Andromaca, Euridice, Frine, Ermione, Rossane, un’amazzone, Antigone.
Un estratto da “Medea” è stato pubblicato su Scrittori Precari.
Qui ho pubblicato “Penelope” in versione integrale.
Qui sotto pubblico “Ermione” in versione integrale.
Funambole di Isabel Farah si può ordinare da qui.
Venerdì 14, alle 18.30, Isabel, Ilaria Giannini e io lo presentiamo à La Cité, a Firenze.

Ermione

Isabel Farah - Funambole“Sei sveglia?”
“No”.
“A cosa pensi?”
“No, sto dormendo. Non penso a nulla”.

Prendo le foglie da terra, quelle più rosse, non ancora secche. Le raccolgo tutte. Mi vesto d’autunno, poi mi lego un lenzuolo bianco intorno al petto e mi metto al balcone. Verifico che il bianco che ho addosso sia più bianco dei panni stesi. No, i panni sono più bianchi e svolazzano e profumano. Allora faccio a cambio. Ma addosso a me, mi sembra, il bianco diventa giallognolo. Il profumo addosso lo sento forte; mischiato al muschio bianco, c’è l’odore della mia pelle. Insieme non mi piacciono. Mi tolgo il lenzuolo di dosso, allargo le braccia, lascio che il vento mi faccia diventare un aquilone, chiudo gli occhi. Mi sento lei.

Mia madre ha i capelli rossi, il viso chiaro, gli occhi del verde del vetro che vedo brillare sotto l’acqua del fiume. Esilissima falce di luna, mia madre. Io ho gli occhi neri e i capelli anche e il mio carnato è quello del legno che vedo sotto l’acqua del fiume. E i miei fianchi sono un po’ larghi. E sono più bella di lei. Sarò più bella di te, Elena. Te lo giuro. Nessuno dirà che Ermione non è bella come Elena. Saremo così diverse che a nessuno sarà dato sapere che sei mia madre. così non avrai la possibilità di dividere la tua colpa con nessuno; con me, con una figura che senti vicina a te. La colpa dei padri non deve ricadere sui figli: se così sarà, vorrà dire che io non sarò tua figlia e tu non sarai mia madre.

“Ermione?”
“Eh?”
“Dov’è?”
“Chi? Chi? Dov’è chi?”
“La mamma”.
“È in vacanza, è una donna in vacanza”.
“E dov’è andata in vacanza?”
“In un’isola, lontano”.
“E perché non ci ha portato?”
“Buona notte fratello, buona notte”.

Prendo i libri, vado via. Sono una studentessa con la divisa. Ormai ho l’età necessaria per non avere più bisogno di una figura che mi insegni come si fa. A essere donna, dico. È vero, all’inizio mi sono mossa nell’universo del mio corpo con una bussola che mi portava nella direzione contraria rispetto a quella che esso mi indicava. In rapporto contrastivo con lei mi muovevo. Ma adesso non ho più bisogno di fare sforzi per travestirmi dal suo opposto. Non mi vesto da uomo perché lei è una donna; l’ho fatto. Pantaloni rubati a mio fratello, capelli nascosti sotto un cappello. Sigaretta in bocca, una fascia stretta che mi appiattisse il seno. Mi sono vestita di nero perché Elena si vestiva di bianco. Tutto ciò non è servito a smettere di sognarla la notte. A smettere di pensare a lei. Arrivavo alla conclusione che io potevo anche vestirmi di bianco, che lei avrebbe dovuto vestirsi di nero. Se la odiavo è perché lei non lo faceva. Mi ha dato tanto amore.

“Non ti manca la mamma?”
“No”.
“A me sì. Mi manca. Mi manca molto. A volte penso che se ci fosse non mi farei la pipì addosso”.

Da bambina mia madre mi faceva sedere sulle sue ginocchia, mi baciava la fronte, mi dava la buona notte. Però quando ho iniziato ad essere taciturna non se ne è preoccupata. Lei viveva così, senza farsi problemi. Parlavo agli alberi del bosco, lei mi sorrideva e mi diceva di non allontanarmi. Si sentiva una vittima, ha sempre ricevuto troppo amore per credere a chi la odiava. così trovava senza difficoltà, nell’amore degli uomini, una razionale capacità di svuotare di senso l’odio delle donne. Ma io sono una donna e sono sua figlia. Dovevo amarla o odiarla? Le altre donne la odiavano, io non volevo essere da meno. Se mi avesse fatto diventare il centro della sua vita, l’avrei senz’altro amata. Non l’ha fatto e io sono riuscita a vederla come una persona divincolandola, non senza fatica, dal ruolo di genitrice che mi avrebbe naturalmente condotto alla gratitudine. La presenza di sua sorella invece ha giocato un ruolo fondamentale. C’erano solo loro due, io diventavo parte del contesto, non una complice, ma una comparsa. La mia presenza mai essenziale. Restavo in camera con mio fratello a chiacchierare per ore. Loro due in cucina a fumare sigarette e parlare in una lingua tutta loro. Insieme a sua sorella mi faceva schifo anche mia madre. Mia zia non mi degnava nemmeno di uno sguardo, come se fossi stata lí per caso. Se fossi morta avrebbe pianto per il dolore di Elena, non per la morte di una bambina.

“Ermione, dormi?”
“Sí, dormo. E dovresti dormire anche tu. È tardi e domani mattina dobbiamo andare a scuola”.
“Tanto c’è la mamma che ci sveglia”.
“No, la mattina ti sveglio io. Io ti preparo il pane col miele. E ti prendo per mano e andiamo insieme a scuola”.
“Buona notte Ermione, ti voglio bene”.
“Buona notte”.

Quando ho incontrato Neottolemo mi sono resa conto che non avevo mai avuto amici prima. Nessuno con cui parlare, nessuno che mi parlasse. La cosa non mi era mai pesata però. Non trovavo bambine con cui avessi voglia di giocare. Ricordo però che quando andavo al mercato con mia madre, lei si fermava con i muratori e io andavo dalle signore che vendevano le stoffe. Facevo finta di guardare la merce. Aspettavo che mi guardassero. E mi regalavano chi una fragola, chi un lampone. Mi davano un buffetto sulla testa, una carezza sulla guancia. Una volta chiesi a una signora se voleva essere mia mamma. Mi sorrise, ma non mi diede risposta. La odiai, ma il giorno seguente tornai a farmi regalare un altro frutto. Ora sono più clemente, da bambina ero un po’ sulle mie, decisamente ispida. Forse mi libero ogni giorno di più da lei. Mi emancipo, forse. Mi sono addolcita quando ho incontrato Neottolemo. Prima, di me, la gente diceva che ero una ragazzina intelligente e furba e la figlia di una puttana e diversa dalla madre. Nessuno, tranne me, poteva parlare di mia madre. Questo vale anche oggi. Io sola posso giudicarla, avere il diritto di amarla o odiarla. A seconda dei giorni, del momento del giorno. A volte provo anche i due sentimenti insieme. Finisco col ridere, “Ermione” mi dico allora. “Quando la smetterai di misurarti con lei?” E smetterò mai di misurarmi con lei?

“Sorellina, mi racconti una storia?”
“Sí, che storia vuoi?”
“Una dolce. Che mi faccia addormentare e fare sogni dolci”.
“E se i sogni fossero di sangue? Bisogna amare anche la lotta”.
“Va bene, ma non voglio che siano turbati”.
“Va bene, sognerai di una rivoluzione che rende gli uomini liberi”.
“Grazie”.

Poi venne Oreste. Ma questa è un’altra storia. Ci arrivo, con calma però. Neottolemo e io passavamo insieme il tempo. A scuola, a casa. Mia madre si era lavata la coscienza. A me a quel punto non importava più. Vivevo meglio senza pensare a lei, senza vederla.
È stato Neottolemo a farmi iniziare a capire cosa mi succedeva. E se anche questo non ha significato la risoluzione del problema, almeno è stato l’inizio di un’unione tra due parti di me che avevo scisso. Sono figlia unica, io. Mica lo sapevo. A chi raccontavo le storie la notte, allora? Chi prendevo per mano la mattina per andare a scuola, allora? Ero io. A me. A me sola. Neottolemo mi accompagnò lungo il percorso della mia infanzia, della mia adolescenza. Capii dunque cosa avevo fatto ed ebbi paura. La notte mi svegliavo in un bagno di sudore. C’ero io? E mia madre esisteva o era frutto della mia fantasia? E Neottolemo era reale o era la proiezione di ciò di cui avevo bisogno?

“Ermione?”
“Chi sei? Cosa vuoi da me?”
“Ermione, sono io, tuo fratello”.
“No! Non ho fratelli io!”

Così scompariva mio fratello, che ero io. E mi mancava. Svegliandomi andavo da Neottolemo. Capiva subito se stavo bene o se avevo fatto brutti sogni.
Sposai il mio migliore amico, non fu amore, non fu rivoluzione. Ma non sempre ci si sposa per cuore. Io ne so qualcosa, la mia famiglia è piena di storie senza passione. Con Neottolemo stavo benissimo. Ero una donna io, bella, forte della mia bellezza e di lui. Che sapeva di non avermi come si dovrebbe. Mai un uomo ha trattato il mio cuore con un tale garbo. Risate, silenzi e spazi condivisi e spazi separati rendevano la nostra un’unione serena. più forte forse dell’amore, sicuramente più stabile, ché i fuochi possono essere grandi ma senza rinnovare la brace hanno un tempo di perdita.
Ad oggi vi posso dire che Neottolemo, che non è più mio marito, è vicino a me. Siamo in un certo modo ancora sposati. Non abbiamo mai giocato a fare finta di essere felici, questo il segreto della nostra felicità. Quando siamo insieme, siamo due persone che si amano, come siamo sempre state.

“Ermione?”
“Tu? Ma non eri morto? Non ti avevo ucciso io?”
“No, non mi avevi ucciso. Non avevi più bisogno di me. E ora sei di nuovo sola, sorellina. La mamma, la mamma dov’è?”
“Lasciami in pace, ti prego”.

Non potevo chiedere però all’amico di continuare a lottare con me per cacciare i fantasmi. Lo avrebbe fatto, ma mi sembrava di chiedere troppo. Io, da sola, dovevo decapitare mio fratello una volta per tutte.
Oreste mi rapì, ma non nel senso fisico del termine. Senza bontà d’animo. Oreste, qualcuno con cui passeggiare nel paese dei balocchi, qualcuno con cui perdersi. Non poteva durare in eterno: è finita nel peggiore dei modi. Le uniche parole che non avrebbe dovuto pronunciare. Al posto della gentilezza un bicchiere di pastis ghiacciato lasciato sul balcone, lo stesso balcone dei miei panni stesi. Oreste, a casa mia. Non avrei dovuto farlo entrare lí, cazzo. Vita bohèmienne. E anche viaggi, abiti costosi, divertimento senza limiti. E un figlio. Un figlio che mi consolerà un giorno dal male che mi fece il padre. Giocavamo, io e suo padre, a travestirci da giovani attori, belli come il sole, il resto non importava. Il mio ventre si gonfiava. Oreste, se non poteva uscire con me, usciva solo. Beveva solo. O con altre donne. Io non ero più di suo gradimento? Cercavo di evitare le scenate di gelosia, dentro mi contorcevo il fegato. Una notte, un nome di troppo toccò le sue labbra. Alle parole degli ubriachi non presto mai molta attenzione. Quella notte però, sulla terrazza, un marito barcollante nominò lei. Elena. Elena la bella. Elena la troia. Elena mia madre. Sapete già che il furore di un barbaro si acquieta ma non si spegne, sono certo diventata dolce, ma non ho perso il gene della ribellione. Credevo che mia madre fosse morta, evidentemente l’avevo solo accompagnata a prendere sonno nella stanza degli ospiti, insieme a mio fratello. Farfugliò qualcosa sul fatto che se io fossi stata lei, non avrebbe desiderato il corpo di altre donne. E mia madre, incinta di me, si era chiusa in una villa vuota. Io, che non sono lei, amo vedere il mio corpo cambiare, il mio corpo accogliere il cambiamento. Una pazza in mezzo all’afa del mio balcone emetteva urla di sirena. Non valse nessuna parola da aggiungere. Fuori. Fuori dal mio letto, dalla mia stanza, dal mio balcone. Dalla mia vita. Riprenditi tutto, Oreste, non voglio sentire nemmeno l’odore delle tue sigarette.
Sarebbe tornato mille volte sotto la mia finestra. In lacrime, sobrio, serio, sbronzo, bello, disperato, con e senza fiori. Una cosa, di me, l’ho imparata: Ermione non torna indietro.

“Sorella, dormi?”
“Dormirei, se tu mi lasciassi dormire”.

Tisamene muove i suoi primi passi. Lo osservo mentre i suoi occhi curiosi scoprono il mondo. Mi diverte vedere che cadendo per terra cerca in me la reazione che deve avere. Anche se ora sono una madre non ho perso la voglia di ballare, di giocare a fare l’aquilone, di bere la pioggia che cade. Se non posso ballare, non è la mia rivoluzione. Tisamene riceve tutto l’amore che una madre che ha deciso di avere un figlio può dare. E Neottolemo mi aiuta tutti i giorni a non perdermi nel bivio di donna e madre. Sarai entrambe le cose, Ermione. Una madre e una donna bellissima. Mia madre, immagino, continua a riposare nella stanza in più. Non fa rumore però. A me non importa essere più bella di lei. Non mi importa che resti lí a dormire. Guardandomi allo specchio vedo i miei occhi neri. Mi piaccio. Gli occhi di mio figlio sono come i miei. Sarò la prima donna della mia vita, questo lo so. E ora le voci sono la mia.

“Ermione, dormi?”
“No, Ermione, non dormo. Vienimi a trovare quando vuoi. Ma cerca di non svegliarmi. Ti sei offesa? Te ne sei andata via?”