Principi di devozione II (parte 3 di 3)

Ricordi quando uscì Songs Of Faith And Devotion? Avevi tirato fuori di nuovo, chissà da quale cassetto, quel fermaglio per i capelli a forma di conchiglia. Io ero ancora capace di avvertire i contorni netti dei simboli, rileggere distintamente le storie del passato, attribuire correttamente memorie e suggestioni perché la vita era stata ancora breve, fino a quel momento. Arrivai sotto casa tua, ti aspettai all’ombra del pino marittimo, proprio davanti al negozio di dischi. Sando aveva comprato Songs Of Faith And Devotion, che era appena uscito, saremmo andati da lui ad ascoltarlo. Noi avevamo visto solo il video di I Feel You, il singolo che lanciava il nuovo album. Io ero rimasto incollato allo schermo del televisore. Mi faceva impazzire il modo in cui Dave alzava la gamba e batteva le mani. A te piaceva, il singolo, ma non lo reputavi l’evento del secolo. Chissà per quale motivo eri già grande. Certo, anche io di qualcosa mi ero accorto, I Feel You mi diceva che erano cominciati gli anni ’90, più sporchi, più eccitati, più disperati. Guardandolo avevo capito che ero cresciuto e che prima o poi sarei morto. Però pensavo fosse bello, perché pensavo che sarei morto con te. Ancora una volta, per l’ennesima volta, il futuro non voleva presentarsi problematico al cospetto della mia coscienza che, da parte sua, era ancora ben lungi dall’allestire un tribunale. Tutti a casa propria, tutti in pace, i muri belli dritti. Nothing to fear.

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Principi di devozione II (parte 2 di 3)

Quell’inverno un programma per l’Amiga lasciava che ragazzini senza senso di realtà potessero credere di comporre musica. Quattro piste correvano parallele in verticale sullo schermo azzurro. Orizzontale, la linea del tempo tagliava le piste e faceva suonare ciò che la attraversava. Quando un campione appoggiato su una pista passava la linea del tempo, suonava, e la sua immagine si illuminava: sembrava, in questo dinamico alterco, che le piste si rincorressero l’una con l’altra senza superarsi mai. Fui chiuso in camera di mia sponte per pomeriggi interi, quell’isolamento forse non giovò alla mia coscienza e mi ritrovai infine a credere d’aver prodotto qualcosa di valore: una pietosa composizione che il dj di una radio locale mi aveva promesso di trasmettere. Tutto sommato, se lo avesse fatto sul serio, oggi non me ne sarei vergognato: l’esaltazione ingenua della nostra adolescenza è bella e la perdoniamo pur avvertendo che in fin dei conti sarebbe stato meglio per noi non essere così.
Nel programma azzurro dell’Amiga erano inclusi dei demo per mostrarti come prima di te altri avevano fatto le musiche sull’Amiga: lasciavi scorrere la composizione altrui sul sequencer, lasciavi che si illuminassero i campioni cercando di capire dove si dovevano mettere i pezzi della musica. Fu solo quando mi convinsi d’aver completato la mia creazione che li ascoltai tutti. Uno era spettacolare. Si chiamava “Ice Machine”. La resa del suono era terribile, ma la melodia era semplice e magnifica, stupida e sconvolgente. Usciva dall’Amiga: piripiripì-ppirì-ppippi, pi-piripiripì-ppirì-ppippi. Piangevo commosso per l’uomo che aveva composto quella musica celestiale e tristissima su un tristissimo e celeste programma per credere di fare la musica elettronica con l’Amiga. Quell’uomo doveva aver avuto un infarto lungo tanto quanto il tempo di comporla.

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Principi di devozione II (parte 1 di 3)

Ancora oggi, d’estate, a CristoRe i bambini camminano a piedi nudi. Noi vivevamo proprio là, in quel triangolo che si forma prima che mare e ferrovia si accostino. A maggio le mercanzie dei negozi del mare invadevano con gioia i marciapiedi, i terrazzi si riempivano di panni colorati, le donne toglievano dalle cantine e dagli sgabuzzi le sedie fatte con i fili di gomma, le stesse che usavano le Suore del Sacro Cuore su via Amendola, che porta diretta dentro il mare. Tutti si sedevano sui terrazzi, davanti ai portoni dei condominii, alle entrate dei negozi, tutti discorrevano orizzontalmente e verticalmente. CristoRe brulicava di voci e di gente in costume e maglietta, a piedi o in bicicletta, voci e gente che attraversavano strade, salivano scale, entravano e uscivano dai cortili, dalle case, dai negozi. Quando non eravamo al mare passavamo da una casa all’altra con dischi, computer, libri, floppy, fumetti, console, pistole ad acqua, ghiaccioli. I panni stesi aggiungevano il loro profumo al vento che veniva dal mare. A volte potevi sentire l’odore del frigo dei gelati venire dal bar all’incrocio delle strade. Ci lavavamo nelle cantine o per strada, con gli scioni. Cercavamo inutilmente di levarci la sabbia dai costumi prima di entrare nelle case.
Sando lo conoscevo da anni, da prima che si trasferisse al Cristo, e credevo di sapere ogni cosa di lui, quando all’improvviso mi accorsi che era appassionato di quel gruppo. Mi disse che era strano che non lo sapessi: non ne avevamo mai parlato?

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Principi di devozione I

Pubblico in vista il Principio di devozione del Narrator Ingegnere Pierpaolo Figanera che gentilmente sacrifica ai lettori di questo blog – e altri devoti spinge alla condivisione delle storie – il racconto della sua esperienza allorché sorprese se stesso in cammino sulla via della devozione modiana.

Era la mia prima estate indiana. Compivo quell’anno diciott’anni e mio fratello Paolo filosofeggiava alla finestra rullandosi una altra sigaretta. Dalla altra stanza, fuori dalla camera, non veniva alcun rumore ma c’era lo stesso aria di festa in casa. Qualche giorno prima, il vecchio Belarus a muro era stato venduto per due milioni e mezzo ed, ora, girava carta moneta come non se ne vedeva da tempo. Paolo portava, in quel tempo, i capelli ricci, orrendamente tinti di biondo, con un enorme “cocco” in avanti ed un codino piccolissimo strizzato dietro da un elastico giallo. Era la copia perfetta di Martin Gore ossigenato e, non a caso, entrambi si dilettavano – con ottimi risultati – alle tastiere. Quel pomeriggio, parlandoci di Parmenide e del suo primo esame all’università, era venuto a trovarci anche Il Sork che aveva rimediato il tabacco originale della Camel e non quello – putrescente – che già veniva messo nelle nuove bionde con la scritta blu di cui tutti si lamentavano. Rifiutare non si poteva.

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Oltre Ultra

Ci ho messo dieci anni a digerire Ultra. Considerando che quest’estate festeggerò i miei primi diciott’anni di devozione non è poco. Quando ebbi terminato il primo ascolto non ci misi molto a decidere che la decadenza era arrivata. Mi domandai, addolorato, ciò che mi domando da allora ogni volta che esce un nuovo album: per quale assurdo motivo avete deciso di farci questo? perché non vi siete sciolti dopo Songs Of Faith And Devotion, lasciandoci una carriera devastante, un mosaico di capolavori al quale era impossibile aggiungere alcunché, un’eredità di cui andare fieri, camminando a testa alta? perché ora devono venirci i brividi ogni volta che viene annunciato un nuovo album o, anche solo, qualche rockettaro vi infila tra i suoi gruppi preferiti?
Oggi Ultra è un album che, a volte, mi fa quasi venire voglia di ascoltarlo. Riesco a perdonargli quella specie di chitarra alisincéins che disturba la godevole fruizione di Useless, riesco a non pensare ai CSI quando in Home compare la stessa – evidentemente indispensabile – chitarra. Riesco a rendermi conto che It’s No Good, Barrel Of A Gun, Useless e Home sono delle buone canzoni dei DM. Riesco a rendermi conto che sospettare che la stupenda Sister Of Night sia uno scarto di Violator equivale, coi tempi che corrono, a tirarsi pugnalate al cuore da soli.

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