Federico Platania, Il primo sangue

Federico Platania, Il primo sangue, Fernandel

Andrea vive con i suoi genitori in una casa minuscola e lavora in una mensa tirando su novecento euro al mese. Trascorre la sua vita in una periferia romana infestata dalla miseria, dal risentimento, dalla follia. I cittadini di questo mondo sono i poveri, i barboni, gli immigrati e, odiati da tutti, gli zingari, sui quali piovono pletore di maledizioni in odore di nazismo; ma in questo mondo grigio si incontrano anche sciamani in tuta da lavoro, sentinelle del caos in mimetica, manager senza scarpe: personificazioni del degrado economico e mentale che spesso camminano sul confine tra realtà e allucinazione. Sulla strada che Andrea percorre per andare e tornare dal lavoro compare un giorno il cane nero senza nome, bestia splendida e terribile, quasi metafisica. Il padrone del cane, Francesco, figlio di un ricchissimo industriale milanese, si è recato a Roma per vendere una villa del padre. Apparentemente distanti, Andrea e Francesco vivono entrambi come davanti a una vetrina piena con la porta sbarrata; le loro sono due esistenze cicliche: l’incubo non è la precarietà del lavoro, bensì la schiavitù a un eterno presente, che ha il volto della miseria per Andrea e dell’impenetrabile cassaforte paterna per Francesco, e la minaccia, connaturata a ogni esistenza, della caduta improvvisa nell’abisso. La conclusione cui entrambi giungono è “O la follia o la violenza”, o stare male o fare il male. Le convenzioni e le morali sono resistenti, ma non inespugnabili, e mostrano il fianco proprio quando il reale appare con il volto arrogante dell’immobilità. La lingua di Platania è perfetta, scorre e trascina, i capitoli sono tranciati da lampi di introspezione secca e disperata. Come il quartiere di Andrea, il libro ringhia paura e rabbia. Un senso di oppressione fisico e verbale che è pronto a esplodere da un momento all’altro.

Questa recensione comparve sull’Indice del maggio 2008, ma non fu mai pubblicata su New-Clear Wordz.

I forni

Mia madre mi dice che manca un po’ di roba. Mi chiede se passo a fare la spesa prima di tornare a casa. Così vado. Il discount è pieno di gente, come sempre. Prendo l’aceto, la carta igienica, poi mi metto a fare la fila al banco del pane.
«Dice che dentro quell’appartamento ci vivono pure in quattordici, quindici», dice una signora davanti a me. «Mamma mia per carità. Pensa che schifo», fa un’altra.
Intorno la gente ci urta con i carrelli. Qualche mamma dice al figlio di stare buono. Ci passa accanto una carovana di zingari, come se noi non ci fossimo. Parlano, sembrano fare la spesa proprio come noi, tirano giù i barattoli dagli scaffali, leggono le etichette, confrontano i prezzi. Poi però dicono cose che noi non possiamo capire. Un’altra lingua. Scorrono in un’altra corsia, quella con i surgelati. Li sentiamo ancora ma non li vediamo più.
«Io, per carità, non è cattiveria. Tutti c’hanno diritto di vivere. Ma questi no».
Mi sono già rotto le palle di stare in fila. Comincio a sbattere i piedi per terra, prima piano piano poi sempre più forte. Una signora si gira e mi guarda. Mi fermo.
«Ma se uno andasse lì con un bastone e li pigliasse a mazzate?», dice l’uomo dietro al bancone mentre strappa lo scontrino adesivo dalla bilancia e lo appiccica sulla carta marrone della busta del pane.

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