Marco Candida, Il diario dei sogni

 Questa recensione è apparsa sull’Indice dell’aprile 2008.

Marco Candida, Il diario dei sogni

Verino Lunari, disoccupato e scrittore emergente, tiene un registro dei sogni provocatigli dal Cipralex, il medicinale con il quale cura i suoi attacchi di panico. Spesso, come episodi di una storia, i sogni di Verino compongono una narrazione parallela alla vita: nella paranoia del tradimento da parte degli amici, attività onirica e veglia si respingono, si rincorrono e si travolgono l’un l’altra. Altre volte sogno e realtà intrattengono rapporti di apparente contrapposizione: mentre Verino analizza se stesso e gli altri riducendo quasi ogni essere umano a cosa, nel suo sogno ogni oggetto respira. C’è poi il sogno che è pura invenzione, lampo della mente, ipotesi visionaria: donne che si nutrono dalle ascelle, letture del pensiero frammentarie, fantasmi che vogliono infestare una casa ma sbagliano indirizzo. Il romanzo è appassionante, la scrittura di Candida non ha mai flessioni. La narrazione su due piani richiama il bell’esordio, La mania per l’alfabeto (Sironi, 2007), e anche nel Diario dei sogni torna il rimando all’aforisma 84 della Gaia scienza sull’apparente inutilità della poesia: poesia e necessità, condizione dello scrittore e condizione del lavoratore ordinario si ritagliano ognuna un proprio mondo, e sono mondi con scale di valori inverse.

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La mania nell’alfabeto

Dopo la descrizione di un’esistenza votata alla scrittura con La mania per l’alfabeto, dopo il tentativo di dare una definizione metaforica o addirittura sostanziale della scrittura nel Diario dei sogni, con Domani avrò trent’anni (Eumeswil 2008) Marco Candida chiude il cerchio e sublima il contenuto nell’atto stesso di narrare: sul piano delle scelte formali c’è tutto quello che si trova nei romanzi di Candida – i racconti innestati, i resoconti maniacali, le autodescrizioni snervanti, una perfetta alchimia tra ossessione, psichedelia e audacia d’autore – ma senza che si parli della psicologia dello scrittore o della sostanza della scrittura, quindi senza alcuna possibilità di fornire o fornirsi, per quelle scelte formali, una giustificazione concettuale, e sostanzialmente senza alcuna struttura se non quella che si genera spontaneamente mentre l’autore fa in ogni istante quello che gli pare: tronca sequenze d’azione con resoconti degli oggetti più disparati, le fa ripartire, le conclude con atti di follia autoriale, gioca con la citazione, ridicolizza ciò che ha appena raccontato e svela particolari non irrilevanti a dieci pagine dalla fine. Ancora una volta nella rivendicazione di una completa libertà dai condizionamenti esterni, siano essi le consuetudini formali o le aspettative del lettore, l’io che narra esprime il bisogno di un’assoluta fedeltà alla realtà così come essa si manifesta nel flusso dei suoi pensieri e nell’urgenza delle sue passioni e volizioni; e ancora una volta il libro non è solo macchina della storia, è anche luogo di sincerità, di comunione con il lettore, spesso di confessione da parte di un io narrante profuso in una dialettica di autodifesa e autodenuncia. Ma a differenza di quanto avveniva in passato tutto è ormai racchiuso nel gesto del generare il testo, senza iniettargli una dichiarazione di intenti o la professione di una mania per l’alfabeto. E tuttavia l’idea di scrittura ne risente in qualche connotato acquisendo uno statuto ambiguo, perché il miglior pregio di Domani avrò trent’anni sta forse nel fatto che la narrazione conquista e avvince di più proprio quando si fa più ossessiva. Il che può contestare nei fatti, con il godimento stesso, un ideale di sanità mentale; ma può anche indurre il sospetto che la mania per l’alfabeto sia una mania intrinseca all’alfabeto. Con questa ambiguità la lotta tra autodifesa e autodenuncia che travolge l’io narrante si riflette sulla natura stessa della scrittura.


Questa recensione è uscita il mese scorso sul Riformista. L’ho scoperto stasera. Devo assolutamente dormire di più, per dormire di meno
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