Governa ogni cosa

Shiva Nataraja
Shiva Natarâdja, XI secolo

Barbelo, il cielo di Cherania, è alta e gonfia di nubi, un drappo color grafite trapuntato d’indaco attraverso il quale posso vedere i bagliori delle scariche che si sfogano nel pleroma. Ma da questa parte della cortina il fulmine non si manifesta, e io non avevo contemplato questa eventualità mentre la frenesia serrava il mio corpo nella navicella, mentre poneva nelle mie dita la combinazione corrispondente alla rotta per Cherania. E ora la mia ignoranza delle cose del fulmine e della natura del pleroma mi fa vergognare.

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Dimanche

καὶ ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφελήματα ἡμῶν, ὡς καὶ ἡμεῖς ἀφίεμεν τοῖς ὀφειλέταις ἡμῶν

Et remets-nous nos dettes, de même que nous aussi avons remis à nos débiteurs

E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori

Simone Weil

Al momento di proferire queste parole occorre che i nostri debiti siano stati tutti rimessi. Non si tratta soltanto della riparazione alle offese che pensiamo di aver subìto. Si tratta anche della riconoscenza per il bene che crediamo di aver compiuto, e in generale di tutto ciò che ci aspettiamo da parte degli esseri e delle cose, di tutto ciò che giudichiamo ci sia dovuto e la cui mancanza susciterebbe in noi il sentimento di essere stati frustrati. Sono tutti i diritti che a nostro avviso il passato ci dà sull’avvenire. In primo luogo, il diritto a una certa permanenza. Quando abbiamo goduto di qualcosa a lungo, crediamo che sia di nostra proprietà, e che la sorte sia tenuta a lasciarcene godere ancora. In secondo luogo, il diritto a una compensazione per ogni sforzo, quale che ne sia la natura – lavoro, sofferenza o desiderio. Ogni volta che esce da noi uno sforzo e non rientra in noi l’equivalente di questo sforzo sotto forma di un frutto visibile, avvertiamo un sentimento di squilibrio, di vuoto, al punto di sentirci come derubati. Lo sforzo di subire un’offesa ci induce ad aspettarci il castigo o le scuse di colui che ci ha offesi; lo sforzo di compiere il bene ci induce ad aspettarci la riconoscenza di colui che è in obbligo. Ma questi sono semplici casi particolari di una legge universale della nostra anima. Ogni volta che esce da noi qualcosa, abbiamo un bisogno assoluto che rientri in noi almeno l’equivalente, e siccome ne abbiamo bisogno, crediamo di averne il diritto. Nostri debitori sono tutti gli esseri, tutte le cose l’universo intero. Pensiamo di aver crediti su ogni cosa. Ma tutti i crediti che crediamo di avere sono riconducibili a un credito immaginario del passato verso l’avvenire. È a questo credito immaginario che bisogna rinunciare.

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Dimanche

Simone Weil

Per credere che Dio è ricco di misericordia non mi occorre alcuna speranza o promessa. Conosco questa ricchezza con la certezza dell’esperienza, l’ho toccata. E quel che ne conosco per contatto supera talmente la mia capacità di comprensione e di gratitudine che per me neppure la promessa di una felicità futura potrebbe aggiungervi alcunché, così come per l’intelligenza umana la somma di due infiniti non costituisce un’addizione.
La misericordia di Dio si manifesta nella sventura quanto nella gioia, a pari titolo, e forse anche di più, giacché in questa forma non ha alcun equivalente umano. La misericordia dell’uomo appare soltanto nel dono della gioia, oppure allorché si infligge un dolore in vista di effetti esteriori, guarigione del corpo o educazione. Ma non sono gli effetti esteriori della sventura che testimoniano la misericordia divina. Nel caso di una vera sventura gli effetti esteriori sono quasi sempre cattivi. Quando li si vuole dissimulare si mente. La misericordia di Dio risplende invece nella sventura stessa. E proprio nel fondo, al centro della sua inconsolabile amarezza. Se perseverando nell’amore si cade fino al punto in cui l’anima non riesca più a trattenere il grido: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?», se si rimane in quel punto senza smettere di amare, si finisce con il toccare qualcosa che non è più la sventura né è la gioia, bensì l’essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile, comune alla gioia e alla sofferenza, ovvero l’amore stesso di Dio.
Si saprà allora che la gioia è la dolcezza del contatto con l’amore di Dio, che la sventura è la ferita procurata dal medesimo contatto quando è doloroso, e che importa soltanto il contatto, non il modo in cui avviene.
Parimenti, quando rivediamo un essere a noi molto caro dopo una lunga assenza, non contano le parole che scambiamo con lui, ma soltanto il suono della sua voce, che ci assicura della sua presenza.
La cognizione della presenza di Dio non consola, non toglie alcunché alla tremenda amarezza della sventura, non risana la mutilazione dell’anima. Sappiamo nondimeno con certezza che l’amore di Dio per noi è la sostanza stessa di quest’amarezza e di questa mutilazione.

Simone Weil, Lettera a Joseph-Marie Perrin del 26 maggio 1942, estratto.
Traduzione di Maria Concetta Sala.