Ancora sui reading

[…] Ci sono buone ragioni per vedere la cultura digitale non come uno strappo nella storia umana, ma anzi come un ritorno di forme e comportamenti che fanno parte di un passato dimenticato. Nel suo libro “Sono le news, bellezza”, Michele Mezza parla di un “neoumanesimo digitale” basato su una condivisione di beni quale non si vedeva dall’epoca precapitalistica. […]

Dei reading avevo parlato con Massimo Giuliani proprio qualche giorno fa. Questa la riflessione di Max, uscita sul quotidiano Bresciaoggi per la rubrica Linguaggi della rete.

Un paio di appunti sui reading

Un tempo ero molto concentrato sulle presentazioni di libri. Ultimamente mi è capitato di fare tre reading nel giro di poco tempo, e così ho capito che i reading mi piacciono tantissimo, e ho anche capito perché prima li considerassi esibizioni autoreferenziali, inutili e forse dannose, imbarazzanti per l’autore e per il pubblico, e perché invece adesso mi piacciano tantissimo.

1. Il reading è una cosa bellissima quando si raccontano storie, mentre funziona meno, salvo rare eccezioni, quando si leggono estratti, pagine prese dal romanzo a cui si sta lavorando o da quello appena uscito, perché questo significa, spesso, non raccontare una storia, quanto fornire un saggio della propria scrittura; ed era per questo che trovavo i reading autoreferenziali: perché il mio concetto di reading era tarato su questa sua possibile forma, e non su quell’altra, quella del reading vissuto come un raccontarsi storie, che invece sto piacevolmente sperimentando con Gabbiani a stella, la cui formula, che per ora sembra funzionare, prevede sei racconti autoconclusivi, a scaletta mitemente variabile, per la durata di un’ora circa; tra le variazioni è contemplato l’inserimento di un pezzo non mio (a Cagli ho letto la Clitemnestra di Isabel Farah). Insomma: meno autorialità e più storie.

2. Riflettendoci in maniera – lo confesso – ancora piuttosto embrionale, il mio ideale è fatto grosso modo di narrazioni che viaggino gratuitamente o quasi su supporti elettronici, e di narratori che possano farsi pagare per viaggiare e raccontare storie. Questo sembrerebbe in contraddizione con l’idea espressa dal programma ‘meno autorialità e più storie’, perché il pericolo della performance e, di conseguenza, del personaggio-narratore che diventa più importante del testo, è dietro l’angolo, e infatti era adottando questa prospettiva che trovavo i reading dannosi e imbarazzanti; ora però considero anche che il frame della spettacolarizzazione è figlio della nostra epoca: certo impone una riflessione, bisogna tenerne conto, ma senza dimenticare che da migliaia di anni ci raccontiamo storie, ascoltiamo storie; c’è chi viene una prima volta, e poi torna, anche sapendo che ascolterà in parte ciò che ha già ascoltato, e talvolta già letto; quando ho domandato perché, mi è stato risposto che ascoltare storie dà gusto; e io mi sono ricordato di una verità antica quanto il mondo, sentendomi anche un po’ tonto. Mi pare, dunque, che con un sano primitivismo nel corpo e nell’atto si possa ancora praticare la condivisione delle storie riuscendo ad annullare quell’insopportabile alterità di piani tra narratore e pubblico che si avverte in modo così palpabile là dove domina il frame della performance o dell’evento culturale come indicatore di status.