UnumBomberz

Ho realizzato un videocorso di filosofia antica per Oilproject.
Questi sono i link ai singoli video:

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A cosa serve ciò che non serve a niente (1)

Yoshitoshi ABe, serial experiments lain, 1998
Yoshitoshi ABe, serial experiments lain, 1998

Qualche considerazione a margine dell’ultimo pezzo su Scrittori Precari, dove scrivo «dell’attacco che la tecnocrazia spesso muove alla formazione umanistica: non servendo quest’ultima ad altro che allo strato più spirituale della nostra persona, secondo un paradigma tecnocratico, essa non serve a nulla, e questo perché, là dove serve, la tecnica vede il nulla».
Di solito non parlo di letteratura* – e nemmeno di filosofia – in generale, perché, se dovessi dire qualcosa in generale, direi che la letteratura – come la filosofia – non serve a niente. Però ho deciso di cogliere l’occasione e provare – non so se ci riuscirò – a dire perché secondo me la letteratura non serve a niente.

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Intro a Radio Genica 2 e ½

Da I padroni del discorso, di Maria Chiara Pievatolo:

«Socrate scende al porto di Atene, il Pireo, in una occasione festiva. Vorrebbe tornare in città, ma viene trattenuto a casa di Polemarco, membro di una ricca famiglia di industriali meteci, che gli prospetta non solo le attrattive della festa notturna, ma anche che là “synesòmetha te pollòis ton neon […] kai dialexòmetha“. (Resp. 328a) Queste parole, oltre al loro significato ordinario, “staremo insieme a molti giovani e discorreremo”, hanno anche un senso peculiarmente platonico: la synousìa è la partecipazione ad una comunità di conoscenza e di educazione, e il dialégesthai designa la “conversazione” filosofica propria della dialettica. Polemarco, un imprenditore straniero che non gode di diritti politici in città, è, paradigmaticamente, un homo oeconomicus. Eppure, egli cerca qualcosa di più, forse solo come un passatempo: ma non la cerca sul mercato, a pagamento, bensì, gratuitamente, nella synousìa e nel dialégesthai – accettando addirittura il rischio di fare una brutta figura e venire umiliato, come può succedere quando si ha a che fare con Socrate. Come nel Menone, la condivisione della conoscenza reca in sé una possibilità di emancipazione.

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Bondism

Tarantino è espressione di una cultura elitaria, relativista e snobistica, che non tiene in alcun conto i sentimenti e i gusti del popolo e della tradizione, considerati rozzi e superati.

Così Sandro Bondi a Panorama; lo apprendo da Vibrisse.
Al di là del fatto che definire elitaria e snobistica la cultura di cui Tarantino è espressione mi sembra ridicolo, mi domando: quale significato sta prendendo, nell’era Ratzinger, la parola relativismo? Prima fu “fate come se Dio ci fosse“, il che sottintendeva che senza Dio non si danno valori; qualcuno aveva fatto notare il nichilismo implicito in questa posizione, ma certo, in questo caso è faccenda anche teologica: c’è di mezzo lo statuto di Dio, persona e/o generatore o creatore di realtà etcetera.
Con l’affermazione di Bondi, però, il nuovo significato del termine relativismo va chiarendosi. Supponendo infatti ciò che mi pare lecito supporre, e cioè che Bondi sia d’accordo sul fatto che un giudice o una giuria debbano premiare ciò che è bello e di valore, l’affermazione di Bondi si può leggere solo così: sono i gusti e la tradizione di un insieme di persone (il popolo) a decidere cosa sia bello e di valore.
Ora, il popolo non è Dio, dunque non c’è spazio qui per le sottigliezze ontoteologiche: il popolo è semplicemente un insieme di persone, e quindi credere, come fa Bondi, che sia il popolo a decidere cosa è bello e di valore equivale a credere che il valore sia riducibile a una costruzione sociale. Che i valori siano costruzioni sociali è concezione legittima, generalmente nota come relativismo. La logica conclusione, dunque, è che, per Bondi, se non sei un relativista, sei un relativista.

Radici

Non è per niente cristiano il mito della “radici cristiane” dell’Europa. Perfino nella messa cattolica c’era un momento splendido – ma che fine ha fatto? – in cui il celebrante diceva: “Introibo ad altare dei – ad deum qui laetificat juventutem meam”.

Fin dall’inizio della storia che fu poi detta “cristiana” però, due porci sono entrati nell’anima nostra di poveri ossessi che nessuno ancora ha liberato: uno di tonaca nera, il male clericale; l’altro di mano rapace, il male del potere temporale e secolare. Sono le bestie che hanno nei secoli assalito e spesso distrutto le due ali dell’anima che anche un analfabeta riconoscerebbe come veramente “cristiana”: la laicità e la gratuità.

Passaggi presi dal post Europa. Il mito delle radici cristiane, una sintesi dell’intervento di Roberta De Monticelli al Festival Con-vivere di Carrara.

Fire fi the eternism

F. W. J. Schelling
F. W. J. Schelling

E qui, una volta per tutte, la nostra esatta opinione sullo spinozismo! Questo sistema non è fatalismo per il fatto che considera le cose ricomprese in Dio: giacché, come abbiamo detto, il panteismo non rende impossibile la libertà, almeno in senso formale; Spinoza deve dunque essere fatalista per una ragione completamente diversa e indipendente da quello. L’errore del suo sistema non consiste nel fatto che egli pone le cose in Dio, ma nel fatto che esse sono cose, nella sua concezione astratta degli esseri del mondo, anzi della stessa infinita sostanza, che appunto non è per lui che una cosa. Perciò i suoi argomenti contro la libertà sono completamente deterministici, per nulla panteistici. Egli tratta anche la volontà come una cosa, e dimostra per via perfettamente naturale, che per ogni decisione ad agire essa deve venir determinata da un’altra cosa, la quale a sua volta è determinata da un’altra, e così via all’infinito. Di qui l’assenza di vita del suo sistema, l’aridità della forma, la povertà dei concetti e delle espressioni, la spietata rigidezza delle determinazioni, che ottimamente si accorda con la sua astratta maniera di pensare; di qui anche per conseguenza la sua veduta meccanica della natura.

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Ciò che determina il destino

Da Ordo amoris, di Max Scheler:

Chi ha l’ordo amoris di un uomo ha l’uomo stesso. Ha per l’uomo inteso come soggetto morale ciò che è la formula di cristallizzazione per il cristallo. Scruta l’uomo fino al punto limite a cui può arrivare chi voglia scrutare l’uomo. Vede davanti a sé le linee fondamentali del suo cuore, che compiono il loro percorso restando costantemente al di là di ogni diversità e di ogni complessità di carattere empirico; è il cuore infatti che più del conoscere e del volere merita di essere definito come nucleo dell’uomo inteso quale essere spirituale. Chi ha l’ordo amoris di un uomo possiede in uno schema spirituale la fonte originaria che segretamente alimenta tutto ciò che da quest’uomo proviene; ancor di più: possiede l’elemento originario che determina tutto quello che continuamente appresta a prodursi attorno a lui – ciò che nello spazio determina il suo ambiente morale, ciò che nel tempo determina il suo destino, ossia l’insieme di tutto ciò che a lui e solo a lui può accadere. Poiché già il semplice fatto che l’uomo attribuisca il valore di stimolo, in base alla modalità e all’intensità d quest’ultimo, a una qualche attività della natura che non dipende da lui ma che ha effetto su di lui, non può avvenire senza la partecipazione del suo ordo amoris.

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Kai Zen meets Evangelion

Segnalo “Eine Anime für Alle und Keinen”, una serie di sette post pubblicati su Kaizenology: 1 2 3 4 5 6 7.
I sette post formano un saggio pubblicato sotto licenza creative commons, “Neon Genesis Evangelion – Un anime per tutti e per nessuno”, che è contenuto anche in Pop Filosofia, il volume a cura di Simone Regazzoni uscito per Il Nuovo Melangolo.

Quello che segue è un estratto dal secondo post della serie:

Già da subito, lo scontro tra l’angelo Sachiel e l’Eva 01 (1- L’attacco dell’Angelo, 2 – Soffitti sconosciuti) potrebbe essere letto, parzialmente ma legittimamente, come una riflessione sul tema dell’altro. Chi è l’altro? Cosa comporta venire in contatto con l’altro? Cosa cerco nell’altro?

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Lasciarsi fare

Simone Weil, L'ombra e la grazia, BompianiNon si può far nulla, assolutamente nulla, per coloro il cui Io è morto. Ma non si sa mai, in un essere umano determinato, se l’Io è morto o solo inanimato. Se non è morto, l’amore può rianimarlo, come se lo pungesse, ma solo l’amore completamente puro, senza la minima traccia di condiscendenza, perché la minima sfumatura di disprezzo precipita verso la morte.
Quando l’Io è ferito dall’esterno, per prima cosa si rivolta con estrema amarezza, come un animale che si dibatte. Ma quando l’Io è quasi morto, desidera esser finito e si lascia venir meno. Se allora l’amore lo risveglia, è un acutissimo dolore che genera ira contro chi l’ha provocato. Da ciò, negli essere degradati, le reazioni (apparentemente inspiegabili) di vendetta contro chi ha fatto loro del bene.
Accade anche che in colui che fa del bene l’amore non sia puro. Allora l’Io risvegliato dall’amore, ricevendo subito, dal disprezzo, una nuova ferita, provoca l’odio più amaro, odio legittimo.
In chi, invece, l’Io è totalmente morto, non c’è nessun imbarazzo per l’amore di cui è fatto oggetto. Si lascia fare; come i cani e i gatti che ricevono nutrimento, calore, e carezze e, come quelli, è avido di riceverne il più possibile. Secondo i casi, si affeziona come un cane o si lascia fare, con una specie di indifferenza, come un gatto. Beve senza il minimo scrupolo tutta l’energia di chiunque si occupi di lui.
Disgraziatamente, ogni opera caritatevole rischia di avere come clienti una maggioranza di persone senza scrupoli o, soprattutto, esseri in cui l’Io è stato ucciso.

Simone Weil, L’ombra e la grazia