L’Acheronte del nonno

Su Scrittori Precari, L’Acheronte del nonno, il racconto che ho letto a Torino una sega:

[…] È in quell’istante che la porta della sala si piega verso l’interno con un gemito. Ci voltiamo tutti, e non capiamo finché non abbassiamo lo sguardo e vediamo il testone del nonno, e poi il nonno intero che striscia dentro la sala contorcendo il tronco. […]

 [Questo invece è il racconto che non ho letto a Torino una sega]

Santoni parla di Dreadlock

Un mondo immaginario […] non solo coerente formalmente e filosoficamente, ma anche in qualche modo consapevole dell’essere maya, illusione, come del resto tutti i mondi, innanzitutto quello di chi sta scrivendo – o leggendo – questo pezzo, con buona pace dei nostri ombelichi.

Da Di ombelichi e mondi immaginari.

Dove Vanni Santoni parla anche di Nina dei Lupi di Alessandro Bertante, L’isola dei liombruni di Giovanni De Feo, Nessun paradiso di Enrico Piscitelli, Il senso del piombo di Luca Moretti, mostrando quanto sia in errore chi vede solo ombelichi ovunque.

Un’immagine del bene

(Questo post è fatto con le note a piè di pagina dell’ultimo episodio della Società dello Spettacaaargh!, al solito, su Scrittori Precari)

Quando vivi in una roccaforte così rocca e così forte, fai pensieri sul PD che probabilmente nessuno altrove farebbe. Ti domandi come guarderesti a tutto ciò se fosse il tuo partito – che non c’è – a essere una cosa sola con il Comune; ti sfiorano sogni del Novecento, a volte ti domandi se saresti stato integrato, organico, nella Pesaro degli anni Settanta, se in fondo, in quell’ottica, la sovrapposizione tra Comune e Partito fosse coerente, sensata – Pesaro è un luogo dello spirito, si diceva allora; ti domandi se non sia questo il tuo partito e tu stia solo ponendo un’irrazionale resistenza (sei un fondamentalista! fondamentalista!), e chiami sovrastrutture ciò che da dentro chiameresti narrazioni, chiami deriva, dominio della tecnica, apparato impolitico, vuoto ideologico, macchina che si autoproduce ciò che un sensato leninismo chiamerebbe necessità storica e che gli immancabili delle Feste dell’Unità chiamano semplicemente il Partito, e lo votano da sessant’anni così come i cattolici vanno alla messa la domenica.

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A cosa serve ciò che non serve a niente (1)

Yoshitoshi ABe, serial experiments lain, 1998
Yoshitoshi ABe, serial experiments lain, 1998

Qualche considerazione a margine dell’ultimo pezzo su Scrittori Precari, dove scrivo «dell’attacco che la tecnocrazia spesso muove alla formazione umanistica: non servendo quest’ultima ad altro che allo strato più spirituale della nostra persona, secondo un paradigma tecnocratico, essa non serve a nulla, e questo perché, là dove serve, la tecnica vede il nulla».
Di solito non parlo di letteratura* – e nemmeno di filosofia – in generale, perché, se dovessi dire qualcosa in generale, direi che la letteratura – come la filosofia – non serve a niente. Però ho deciso di cogliere l’occasione e provare – non so se ci riuscirò – a dire perché secondo me la letteratura non serve a niente.

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La vita dietro le tastiere

Intrattenimento. Questa è la chiave. Noi non siamo scrittori, siamo intrattenitori. “Facce ride”. Siamo i pagliacci seduti sulla vasca piena d’acqua delle fiere americane, devi abbatterli. Non perché puoi, ma perché devi. Ogni nostra riflessione, ogni appello, ogni discorso, che facciamo non è una riflessione, un appello, un discorso, è intrattenimento. E parte INTEGRANTE dell’intrattenimento è rovinare la vita di una NON-persona. Perché l’intrattenitore non è un essere umano, è un’icona, una bambola, un pezzo di plastica.

La massa di persone che si è riversata sul mio blog, ieri, dimostra essenzialmente questo: Facce Ride. Facce passà la giornata.

E io temo, davvero, che questo processo sia irreversibile perché comprende non solo chi calunnia, ma anche chi guarda e sta zitto.

D’Andrea G.L., Mostruosità, nota su Facebook del 19 giugno

 

D’Andrea G.L. chiude il blog.

 

Qui c’è una riflessione di Lara Manni.

Più in basso, poi, in questo stesso post, trovate una nota di Claudia Boscolo, Senza titolo, o meglio, senza parole, che ho creduto fosse bene portare anche fuori da Facebook.

 

Qui, invece, trovate la terza puntata della Società dello spettacaaargh!. Che forse c’entra anche qualcosa.

 

 

Senza titolo, o meglio, senza parole, di Claudia Boscolo

…o meglio ancora, con parole che andrebbero spese perché non cali il silenzio e i fenomeni rimangano inavvertiti, inosservati. Fenomeni che sono invece segni di decadenza laddove dovrebbe esserci apertura e innovazione (parola inquinata dall’operato di un ministro, vero troll morale di questi tempi bui, ma pur sempre ricca di significato).

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Che si dia per scontato

Leiji Matsumoto, Arcadia

Non sembra più strano nulla, neppure il fatto che oramai chiunque assuma dosi poderose di ansiolitici, che l’insonnia sia per gli italiani il fattore numero uno di destabilizzazione nervosa, che le coppie non durino abbastanza da diventare famiglie – tanto che ormai nelle scuole italiane ci sono più alunni di origine straniera (e vivaiddio che ci sono almeno loro, sennò gli insegnanti se ne starebbero a casa) che di italiani – che in genere si registri un aumento esponenziale di reattività emotiva nella sfera affettiva, mentre la resilienza nella sfera lavorativa è oramai da considerarsi patologica.

[…]

Le radici della cultura italiana affondano nell’esclusione, nella pratica di consorteria, nell’infamia. La situazione attuale non si può considerare una cacciata implicita? Noi si resta qui, ma qualcuno ce l’ha chiesto forse? Arrivano segni tangibili per cui la nostra presenza di intellettuali che potrebbero contribuire in maniera efficace a svecchiare e migliorare questo Paese è effettivamente voluta da chi questo Paese lo governa? Per quanto mi riguarda il fatto che la presenza di molte menti eccellenti non venga, non dico notata, ma neppure a volte remunerata, e che si dia per scontato che un’intera generazione accetti di rimanere appesa al cappio di contratti capestro annichilendo il suo potenziale intellettuale, equivale ad una condanna in contumacia. Perché abbracciare con uno sguardo amoroso un organismo anaffettivo come quello che è diventato questo Paese? Quale investimento emotivo è quello che si chiede a chi può decidere di andarsene: rimanere in cambio di che?

Claudia Boscolo

Leggi il post intero su Scrittori precari.