Zion Train 2008 (ri-editing)

Pensa a una cosa che le accade prima di addormentarsi. Ci sono degli omini, degli automi. Fanno delle cose con gli arti e gli organi fonatori, fanno movimenti e suoni. In quel momento lei è l’occhio completamente estraneo che vede tutto questo obiettivamente, e questo è l’illecito assoluto, ovvero l’impossibile. E dunque, appena ne prende coscienza, la visione si dissolve.
Tiene il gomito nell’angolo del finestrino del treno. Sente sulla guancia la pelle rovinata del palmo della mano. Sente la punta del gomito vibrare con il treno. “Vado da Gabriele perché voglio vederlo”, si rigira nella mente questa frase. Le sembra fatta di parole senza contorni. Non afferrano le cose, come le ombre delle nuvole. Di notte scrive le sue lettere a Gabriele, scrive di come si sente, di cosa sente per lui. Al mattino rilegge le lettere prima di spedirle, e sono loro a dirle cosa prova. Quando se n’è accorta ha anche capito perché le lettere di Gabriele non le dicono nulla.
Sente sulla guancia la mano rovinata dal detersivo economico che usano nel ristorante dove lavora. Quando all’istituto pregava, le sue mani si univano ed erano lisce e morbide. Era come non sapere quale mano stesse toccando l’altra. “Ma di’ soltanto una parola e io sarò salvata”, solo questo ricorda. È sola nel vagone. Il colore del treno è della stessa pasta del sonno, fissa la campagna fuori, ed è come se in ogni istante si fosse appena voltata. Scava i piani del paesaggio, loro si allontanano. Il nome ‘campagna’ è esile, inconsistente, puro suono: stupido, strano nome. Parola. Oggi pensa che Gabriele è solo più abile a vivere nelle parole volanti, a saltare dall’ombra di una nuvola all’altra. Si fa notte e i campi spariscono prima che riesca ad aggrapparvisi.
L’esperimento la viene a trovare ogni giorno, da tanto tempo che non riesce nemmeno a ricordarsene. L’esperimento lo ha cominciato lei, crede. Ogni giorno lei lo ha provocato sperando in una determinata risposta, e ogni giorno lui ha restituito la risposta contraria, di giorno in giorno più chiara, più perentoria, più irrimediabile. L’esperimento non è più una sua volontà, è cresciuto fino a diventare enorme e contenerla: da tempo ha il sospetto che sia l’esperimento a provocare lei a provocarlo, lo fa per poterle dare ogni volta la risposta che lei non vuole e per non darle la risposta che lei spera di ottenere. L’esperimento si dispiega ormai istante per istante, senza che possa fermarlo. Oggi ha la certezza che è l’esperimento a sperimentare lei. Che è l’esperimento che ora le sta facendo cercare la campagna, per dimostrarle che la campagna non le dice nulla, che la sta portando da Gabriele, per renderle inequivocabile che Gabriele non è nessuno. Oggi è convinta che, una volta persa, la voce delle cose non può tornare; e che lei, una volta uscita, non può rientrare. Pensa che anche il treno è estraneo: anche se il treno e le cose corrono paralleli e non si toccano mai, pure essi appartengono allo stesso mondo.
La soluzione, pensa, è una parola semplice e pura, la più rara del mondo. Una parola della quale ognuno è dotato, ma che una volta perduta non si può diseppellire. Il treno si ferma. Sente salire un’acqua di alluminio nella bocca. Scende. Non c’è nessuno ad aspettarla. Esce dalla piccola stazione. Nella notte attraversa la città, palazzi ignoti. Pochi sconosciuti non la vedono e parlano di vite riuscite. Ma non ha più invidia, né vergogna. L’orizzonte buio oltre i palazzi si allarga al tempo dei suoi passi. Gli va incontro e lui diventa immenso. Ora la sabbia le appesantisce i piedi. Poi le piccole onde della riva le riempiono le scarpe. Cammina e non ha paura del gelo e del vestito che si gonfia. Pensa alle parole esatte del silenzio.