Metallo urlante

Gli uffici della Torraccia, da fuori, fanno una scacchiera di rettangoli che riflette il piombo del cielo. Imperscrutabili, sembrano nascondere mestieri e mansioni da scrivanie hi-tech e computer all’ultimo sistema operativo, distributori di caffè, ambienti caldi e depurati. Chissà come sembrano piccoli, da lì, quelli che ogni mattina sbarcano dall’autobus, scendono la scaletta metallica attenti a non scivolare nei giorni di pioggia, per andare a infilarsi come topi nei buchi dei piani bassi. E chissà che grasse risate o che dolorose preoccupazioni dietro i vetri imperscrutabili, stamane, quando il gagiotto con l’eskimo verde è volato sulla scaletta, le gambe all’aria e lo scontro di carne e metallo, per poi rialzarsi e gridare e correre verso il suo buco; e per poi uscirne appena mezz’ora dopo, correndo nella postura del pianeta delle scimmie verso la fermata dell’autobus.

Continuum

Matite spuntate
Maglie ammassate
Piatti ammucchiati
Desktop affollati
Libri impilati
Spicci atterrati
Lenzuola sfasate
Tazze lasciate
Quadri appoggiati
Fogli mischiati
Verdure avariate
Post cominciati
Calzini spaiati
Giorni imburniti
Questi miei giorni
Giorni traditi

Confrontation II

I fatti che andremo a narrare non sono realmente accaduti, ma ciò non toglie che essi potrebbero accadere in quella regione che si trova ai confini della realtà.

– Centro del lavoro, buonasera.
– Buonasera, mi chiamo J. Cercavo il Dottor D.
– In questo momento non c’è, può dire a me?
– Certamente anzi per forza. Vede, io stavo per chiamarvi, per dirvi che avevo trovato un lavoro ma…
– A tempo indeterminato?
– A progetto, ma non è più questo il pun…
– Allora guardi: lei rientra ancora nella disoccupassione, quindi ha diritto…
– Signorina, la prego, mi ascolti. Io dovevo essere da voi quattordici giorni fa, per la rituale visita di conferma del mio stato. Ma mi sono completamente dimenticato.
– Mi faccia controllare… sì, è vero, c’è un richiamo a suo carico. Dovrebbe parlare con il Dottor D.
– Sì, appunto, ma…
– Il Dottor D. però non c’è.
– Ecco, appunto, ma cosa comporta il richiamo?

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Confrontation I

Dove diavolo ho messo il cervello, cristo. Devo averlo lasciato sulla mensola, no, magari sulla stampante, nella tasca della giacca o in quella alta dello zaino, sì, deve essere lì. Mannaggia non c’è. Salterà fuori come al solito attorno alla mezza, quando devo andare a dormire e non ne ho voglia, non ne ho proprio. È che non ho nemmeno gli occhi: avessi gli occhi vedrei dove l’ho messo, il cervello, ma non ce li ho, vedo solo monitor e vedo solo il monitor, non vedo più la gente per la strada, la gente mi saluta e io non so chi sono, non vedo niente. Se almeno trovassi gli occhi, tastando, a tentoni, se almeno li trovassi, forse poi troverei anche il cervello, ma corre tutto così in fretta il pomeriggio, troppo veloce per i pensieri che ho senza il cervello. È che quando alle due mi butto finalmente dentro casa appoggio le chiavi e gli occhi dove poi non mi ricordo di averli messi, il cervello invece se ne va da solo, si prende una vacanza fino alle sei del mattino, e poi ancora un paio d’ore ce le mette. La mattina ci vuole il reggae, una musica sacra, una preghiera affinché l’ipod regga, leggo una pagina di Esiodo sopra l’autobus che non so mai se è quello giusto, perché il cervello si sveglia attorno alle nove. C’è il reggae mentre la nebbia corteggia le colline, c’è il reggae quando la pancia è vuota e l’autobus arriva sempre mezz’ora troppo tardi per salvarmi. Il levare mi culla, una costante ribellione contro il mondo, come diceva Roberto Grandi, una costante, rassegnata e assieme imperitura ribellione contro il mondo, un anelito al ritorno nel ventre della madre. Le opere e i giorni. Il nostro tempo non c’è più. Babylon makes the rules. Schiavi degli schiavi. Non ci passa un attimo.

All the leaves are brown

All the leaves are brown and the sky is gray. I’ve been for a walk on a winter’s day. I’d be safe and warm if I was in L.A. California dreamin’ on such a winter’s day. Stopped into a church I passed along the way. Oh, I got down on my knees and I pretend to pray. You know the preacher likes the cold, he knows I’m gonna stay. California dreamin’ on such a winter’s day. All the leaves are brown and the sky is gray. I’ve been for a walk on a winter’s day. If I didn’t tell her I could leave today. California dreamin’ on such a winter’s day. California dreamin’ on such a winter’s day. California dreamin’ on such a winter’s day… Hi, my name is Stereo Mike…

A F

Se tu fossi qui, lo so, ti infurieresti e fisseresti nei miei occhi con quegli occhi spalancati, da allarme e da intenzione accesi, che da sempre ti possiedono senza darti pace. Pesce adriatico dai muscoli superbi. Se tu fossi qui, lo so, mi urleresti in faccia che la vita è superficie estremamente seria e studiata per il gioco, che chi scrive vive tanto e si tuffa nello scontro degli oceani, e si vota alla caccia e all’assassinio di se stesso. Samurai per sempre, ché comunque morti siamo. Se tu fossi qui, tu ci staresti ancora a curarci di pensare solamente alle ragioni delle azioni e mai alle loro conseguenze, a prendere la notte a petto nudo, rivendicare gli attentati alle pubbliche opinioni, mostrificarci sopra ai prati e sopra ai testi per fare di noi stessi spugne di sostanza e d’attributi, piangere del cosmo e della nostra permanenza a un tempo futile e enigmatica, smettere di piangere, impazzire di risate e di furia di creazione ancora. Bambino che detesta i piagnistei, nato da esser grande. Se tu fossi qui, fermeresti pochi istanti il tuo pensiero per considerare quanto il mio sia corso a te nei giorni fieri e in quelli privi di pretese, poi, proiettile che porta avanti il tempo, scuoteresti la tua mente e le mie spalle, per tornare all’istante del qui e ora che sempre e solo si attraversa. Giusta grazia resa, in te invisibile ai tantissimi, ma è il medesimo coraggio di chi non ha mai aspirato a servire i banchetti raffreddati infarciti dalla colpa. Se tu fossi qui, io lo so, avrei forza per risate e fuoco di parola, avrei occhi attenti, e vigili, e pieni di sorriso. Qui rimangono le carte impolverate, i progetti senza scienza e senza schiena, i versi solitari che a nessuno fanno rima, le abitudini perdenti della microborghesia. Tieni duro, non lasciare che i maiali ti travolgano, circóndati di specchi e ricordati chi sei, affronta ancora oggi lo scoglio di salsedine, disciplina la metafora che ti scorre inesauribile tra i muscoli. Spero ci reincontreremo, spero presto vibrino i levare, e le gite, e le liti, e il manto verde dei tuoi prati, e le frecce di questi nostri archi testardi e artigianali.

Zion and I

Hai da dirmi, che mi guardi così? Che c’è? Non mi riconosci. No, aspetta, aspetta, lo immagino, sono io che ho la faccia di quello che non ti riconosce. Quando si è rotto? Quando è stato che hai smesso di essere mio e io tuo? Deve essere stato in un momento sottile, in un momento nel quale mi sono perso a sognare primavere tra palazzi rossi, ad ascoltare la nostra musica come fosse solo mia o anche di altri posti. Quel muso duro lì, come se me l’hai giurata. Come se mi hai giurato di far finta di niente. Come volessi allontanarti guardando altrove, ritrarti facendo finta di nulla aumentare, questa distanza che ci separa. Non cadiamo più sulle stelle, Caterina è cresciuta, Chiara si sposa e non con quello per cui mi ha lasciato, a che sarà servito, poi, quel giovane olocausto cui tu assistetti, che tu segretamente celebrasti, come domini ogni cosa e ogni gente di qua. I fuochi hanno un altro odore, anche l’impianto è diverso, conosco la metà della gente. Qualcosa dentro ai miei piedi ha ancora bisogno di affondare nudo in quest’oceano di molecole, mondi ultimi, numeri primi, la grande mamma fatta di atomi che ha plasmato, educato le piante dei miei piedi; la mia testa deve essere immersa in te, i miei occhi guardare i raschiaterra e i paguri sul fondo, sul nostro pianeta giallo-verde. Quest’alba è veloce ed eterna, viaggia troppo. Che hai da dirmi? Dimmelo, prima che quest’alba salga su in alto e io volti le spalle, prima di dover aspettare il mio prossimo cosciente estraniamento di fronte a te, dimmelo ora, perché ho paura ora, dei miei piedi e delle mie mani, che non sono più palmati, del mio stomaco che non succhia più salmastro, di me riciclato creatura di smog e cloro. Solo ora, accendi il magnete, rendimi grave verso di te, risucchiami finché sono qui, prima che io esca di nuovo da me. Rotolami dentro di te. Nella tua gravità che è l’unica vera per me. Rotolami nel tuo ventre, dove i su e i giù sono veri solo un po’. Perché fuori da te io non ho più avuto un verso. Non so come mettermi.

?Battiato

Con il Corano chiuso affinché il Profeta non sentisse


Limùn mi trasmetteva la segreta tradizione del cesso siberiano


che è costituito di due bastoni tantrici:


uno per tenerci appesi i pantaloni


e uno per allontanare i lupi





E l’amante del grande matadòr Carlito Franco


che aveva ucciso più di quattrocento torelli di Pamplona


morì perché la scienza medica a lei contemporanea


rinvigorì la tradizione iberica che era anche ippocratica


dei testicoli del toro in pignatta di catrame





Ooo ai event felt so mach gudbiing in mai innerself





E io e Vlad Lemma nascondevamo sotto ai letti del collegio


giornaletti pornografici omosessuali


di origine ghanese


nei corridoi facevano la ronda


le monache rosse di Xegranova Blatah


che si radevano la barba ogni quattr’ore


e celavano le mazze micidiali sotto alle lunghe tonache purpuree





In Scandinavia Peterinia mi insegnava


a pescare i salmoni con le mani


come fanno ancora oggi gli orsi grizzly in Canadà


e i monaci botanici di Lecco


nei rari momenti di lucidità


e mentre la notte durava per sei mesi ella mi scaldava


con falò di ghiaccio lappone e liquor di foca uppsalica





Ooo ai event felt so mach gudbiing in mai innerself




Blinshi lingi shamisè camuvàaas


Blinshi lingi shamisè camuvàaas


Blinshi lingi shamisè camuvàaas


Blinshi lingi shamisè camuvàaas


Laaa-lallalallà, laaa-lallalallà.

Gli stolzi

Salgono gli stolzi
Salgono le scale del palazzo nella notte
Senza faccia, tutti informi e scuri
Saltano leggeri e lunghi
Saltano i gradini a piedi pari
In fila, uno dopo l’altro
Entrano nella tua stanza
In fila, uno dopo l’altro
Fanno "gu… gu…", tra di loro
Fanno "gu… gu…" intorno al tuo letto.