Un tipo di serata

Un tipo di serata

[Per Torino una sega ho scritto due racconti. Questo è quello che non ho letto.]

Anna si è fermata, si è staccata. Dario la sente respirare nervosa; apre gli occhi: vede il tettuccio dell’auto di Anna; piega la testa in avanti e vede il viso di Anna, immobile, al di là del suo pene: gli sembra che Anna stia fissando lui e non il suo pene; gli sembra che abbia in faccia il colore della luna, ma forse è la luce della luna.
Dario fa: – Che c’è?
Anna fa: – C’è uno.
– Eh?
– C’è uno, c’era uno.
– Dove?
– Fuori, affacciato al finestrino, ci guardava.
– Eh?
– C’era uno che ci stava guardando.
– Uno chi?
Dario guarda l’erezione svaporare mentre cerca di capire cosa ci si aspetta da lui ora.
– Uno, – fa Anna – uno, non so chi. Uno: calvo, gonfio, brutto, con la lingua di fuori, ci guardava: uno.
– Tirati su, – fa Dario.

Continua a leggere questo post

Fortune

Talvolta un testo reca in sé un significato di cui l’autore non è cosciente, ma che, una volta portato alla luce, egli è costretto a riconoscere come evidente e incontrovertibile; se il testo è molto fortunato, incontrerà un lettore che sia in grado di cogliere questo significato; se poi anche l’autore è molto fortunato, riceverà una lettera come quella che ho ricevuto da Davide Poggiali, che ringrazio di cuore.

Ho letto Dreadlock. Una sera “giusto un paio di capitoli prima di dormire”…
Alle 2 avevo finito e non riuscivo più a dormire. Non capivo.
Peter Parker si tortura per la morte dello zio Ben e della ragazza Gwen Stacy. Ma non è mai davvero colpa sua fino in fondo. Matteo è responsabile (come lo sono io e tutti i ragazzi del mondo) con le sue disattenzioni e le sue assenze.
Poi ho pensato una cosa, allora mi sono addormentato di botto, liberato dalle mie responsabilità. Vittoria non lo ama. Ha preferito rinfacciare, lasciare un messaggio piuttosto che vivere.

Androide schizoide

Da Philip Dick. Una biografia,  di Emmanuel Carrère, traduzione di Stefania Papetti:

Emmanuel Carrère, "Philip Dick. Una biografia"Ma quello che interessava a Dick, era soprattutto il criterio di discriminazione.
Partì dal principio che gli androidi più perfezionati del 1992 sarebbero stati capaci di superare con successo il test di Turing – cosa che rende inefficace questo test e, secondo Turing, ogni sorta di test: non si sostengono a vita gli esami che sono stati già superati. Tuttavia, Dick non si rassegnò, come Turing suggeriva di fare, ad accoglierli nella comunità umana. E, per evitarlo, fece ciò che Turing considerava un imbroglio, uno di quei tiri tipici degli spiritualisti: introdusse un nuovo criterio. Qual è questo nuovo criterio? Potrebbe essere un test a uso del lettore di questo libro, per assicurarsi che abbia seguito.
Evidentemente, l’empatia. Ciò che san Paolo chiamava carità e considerava la più grande delle tre virtù teologali. Caritas, diceva Dick, sempre pedante. Agapè. Il rispetto della regola d’oro: «Ama il prossimo tuo come te stesso». La facoltà di mettersi al posto dell’altro, di desiderare il suo bene, di soffrire con lui, e, se necessario, di soffrire al suo posto. Ed evidentemente, il ricorso a questo criterio per distinguere l’umano dal replicante avrebbe fatto sorridere Turing, e a ragione. Egli avrebbe fatto notare che numerosi esseri umani non sono affatto caritatevoli e che nulla vieta, in teoria, di inserire nel programma di una macchina dei comportamenti che la convenzione umana attribuisce alla carità.
Ma Dick non era il tipo che, una volta tracciata una frontiera, ci si sieda sopra per declamare delle carinerie umanistiche o religiose. La sua vocazione al contrario consisteva nello spostare continuamente quella frontiera, e, muovendosi lungo le sue linee tratteggiate mobili, stanare le lepri, esercizio che fa di un thriller di fantascienza come Blade Runner un trattato di teologia cibernetica nel vero senso della parola vertiginoso.

Continua a leggere questo post

Ancora sui reading

[…] Ci sono buone ragioni per vedere la cultura digitale non come uno strappo nella storia umana, ma anzi come un ritorno di forme e comportamenti che fanno parte di un passato dimenticato. Nel suo libro “Sono le news, bellezza”, Michele Mezza parla di un “neoumanesimo digitale” basato su una condivisione di beni quale non si vedeva dall’epoca precapitalistica. […]

Dei reading avevo parlato con Massimo Giuliani proprio qualche giorno fa. Questa la riflessione di Max, uscita sul quotidiano Bresciaoggi per la rubrica Linguaggi della rete.

Un paio di appunti sui reading

Un tempo ero molto concentrato sulle presentazioni di libri. Ultimamente mi è capitato di fare tre reading nel giro di poco tempo, e così ho capito che i reading mi piacciono tantissimo, e ho anche capito perché prima li considerassi esibizioni autoreferenziali, inutili e forse dannose, imbarazzanti per l’autore e per il pubblico, e perché invece adesso mi piacciano tantissimo.

1. Il reading è una cosa bellissima quando si raccontano storie, mentre funziona meno, salvo rare eccezioni, quando si leggono estratti, pagine prese dal romanzo a cui si sta lavorando o da quello appena uscito, perché questo significa, spesso, non raccontare una storia, quanto fornire un saggio della propria scrittura; ed era per questo che trovavo i reading autoreferenziali: perché il mio concetto di reading era tarato su questa sua possibile forma, e non su quell’altra, quella del reading vissuto come un raccontarsi storie, che invece sto piacevolmente sperimentando con Gabbiani a stella, la cui formula, che per ora sembra funzionare, prevede sei racconti autoconclusivi, a scaletta mitemente variabile, per la durata di un’ora circa; tra le variazioni è contemplato l’inserimento di un pezzo non mio (a Cagli ho letto la Clitemnestra di Isabel Farah). Insomma: meno autorialità e più storie.

2. Riflettendoci in maniera – lo confesso – ancora piuttosto embrionale, il mio ideale è fatto grosso modo di narrazioni che viaggino gratuitamente o quasi su supporti elettronici, e di narratori che possano farsi pagare per viaggiare e raccontare storie. Questo sembrerebbe in contraddizione con l’idea espressa dal programma ‘meno autorialità e più storie’, perché il pericolo della performance e, di conseguenza, del personaggio-narratore che diventa più importante del testo, è dietro l’angolo, e infatti era adottando questa prospettiva che trovavo i reading dannosi e imbarazzanti; ora però considero anche che il frame della spettacolarizzazione è figlio della nostra epoca: certo impone una riflessione, bisogna tenerne conto, ma senza dimenticare che da migliaia di anni ci raccontiamo storie, ascoltiamo storie; c’è chi viene una prima volta, e poi torna, anche sapendo che ascolterà in parte ciò che ha già ascoltato, e talvolta già letto; quando ho domandato perché, mi è stato risposto che ascoltare storie dà gusto; e io mi sono ricordato di una verità antica quanto il mondo, sentendomi anche un po’ tonto. Mi pare, dunque, che con un sano primitivismo nel corpo e nell’atto si possa ancora praticare la condivisione delle storie riuscendo ad annullare quell’insopportabile alterità di piani tra narratore e pubblico che si avverte in modo così palpabile là dove domina il frame della performance o dell’evento culturale come indicatore di status.

Senza toccare terra

La Grasse Matinée – la rubrica curata da Leyla Khalil per Caffè News – rimbalza su un lato pressoché inesplorato di Dreadlock.

[…] Se la filosofia del palestrato è alienazione pura, scissione definitiva di anima e corpo che si ritrovano ad essere nutriti uno a discapito dell’altro, tanto silenzio mentale per gonfiare un po’ quel bicipite per rimorchiare meglio per affascinare di più, il parkour è al tempo stesso una sfida continua a livello mentale e fisico, chi lo pratica si fonde visceralmente con la città, ci intesse un legame primitivo in cui l’uomo – o donna – non è più l’essere civilizzato che cammina ordinato su due piedi limitando più possibile lo spazio che occupa, ma l’animale selvaggio che salta da un muro all’altro senza toccare terra, fa piroette e figure complicatissime, salti lunghi come se per un attimo uscisse dalle limitazioni della forza di gravità. […]

L’articolo integrale di Leyla Khalil si trova qui.