Maius quam cogitari potest – Terza meditazione in settembre

Padre, Madre

Il Padre è oscurità di materia, e quindi per noi, ma solo per noi, caos, perché i rapporti di causa ed effetto che ci hanno effettuati, che pure ci sono stati e che una mente infinita dotata di memoria infinita potrebbe anche tentare di ricostruire, appaiono a menti finite con memorie finite – quelle insomma di cui disponiamo – come un irricostruibile caos di traumi, esperienze, ricordi, ragioni addotte ma chissà poi se reali. Noi cerchiamo di ricostruirlo con l’accanimento di chi vuol capire, reagiamo al suo apparente caos con volontà di controllo e terrore dell’indeterminato: è il modo più veloce per non conoscerlo, cioè non sapere come gestire il rapporto con lui, che sta dentro di noi e ci punisce quando non lo conosciamo, ovvero quando a tal punto non lo conosciamo che pretendiamo di conoscerlo. Una tale aggressività non fa che irritare il Padre in noi, rendendo noi irritati e irritabili, non fa che allontanarlo, aumentando la nostra oscurità, non fa che confondere, mentre aspettiamo un segno che ci indichi per quale motivo vivere, quando vivere significa proprio smettere di attendere i segni. Chi cerca il Padre con il padre, con la propria parte maschile, aggressiva ed esaurita nel raziocinio, non potrà che trovare il padre. Se si muovesse altrimenti potrebbe invece incontrare la Madre.

A causa di questa apparente doppia natura della prima persona della Trinità, che può essere ferro o può essere piuma ed è una doppiezza che risponde solo alla grazia del nostro approccio, si dà in molte forme di pensare il divino una dualità originaria. Stando a Ireneo, per i Valentiniani, Dio è, nella sua origine, sia Madre sia Padre. Ineffabile e Profondità sono i nomi della declinazione maschile, Silenzio e Grazia sono i nomi della  declinazione femminile. Si noti come nei primi casi, Ineffabile e Silenzio, la declinazione femminile sia un’accettazione e in qualche modo una trasformazione in virtù di ciò che nella declinazione maschile appare come un’impossibilità, un’impossibilità che chiaramente risponde a un tentativo, quello di dire: ma Ineffabile è un fallimento, Silenzio è una tranquillità. Allo stesso modo a Profondità, nella quale la nostra volontà di conoscenza, cioè di controllo, cade senza trovare mai il fondo, corrisponde Grazia, cioè il sapersi librare, anche al di sopra dell’incomprensione. Per avere a che fare con la Madre piuttosto che con il Padre: per questo è necessario il salto antropologico che Gesù propone.
Nel Vangelo di Tomaso Gesù chiama Madre lo Spirito Santo: questo potrebbe sembrare in contraddizione con quanto Ireneo racconta dei Valentiniani, ma non lo è. Lo Spirito non è altro che realizzazione quotidiana del messaggio, che è la verità del Padre, luce dei valori, gioia della vita vissuta come opportunità: in altri termini è Madre perché, esattamente come volevano i Valentiniani, è l’aspetto reale e concreto, quindi compreso e vissuto, della realtà del Padre. Quando il Padre rimane Padre collerico, lo Spirito, semplicemente, non soffia, le cose non brillano, il mondo ha solo la gravità ma non è illuminato. Melanconia, tensione, confusione, collera e infine depressione ci tengono occupati i cervelli e ci muovono come marionette. Dove stiamo sbagliando?
Forse può dirlo un’ulteriore apparente contraddizione nella gnosi valentiniana: il principio femminile è anche Sapienza, ed è quello che dà origine alla caduta, cioè alla formazione del nostro mondo. Ma come? Non era Silenzio, Grazia, la parte femminile della Trinità valentiniana? Perché ora la madre del mondo viene definita Sapienza e a lei si deve la caduta? Perché Sapienza volle generare il mondo da sola, senza la controparte maschile. In questo senso ecco l’errore: la non accettazione della realtà del Padre, la volontà di Sapienza, per l’appunto. Sapienza non ha avuto fede.
Dice De Caussade: «Lo spirito che affligge, è il solo che possa consolare».
Per questo anche nel dolore, anche nel rapporto soverchiante con il Padre caotico, si dà una gnosi, una gnosi che è una conoscenza che non è né diretta né indiretta, non è diretta perché non è il sentimento della grazia dentro e fuori di sé, non c’è gioia, però in qualche modo c’è felicità, e c’è felicità perché c’è promessa, e questo è il lato diretto: la promessa sta nella comprensione quasi innata del sistema dei contrari: la conoscenza dell’oscurità, del dolore, della disperazione è una conoscenza speculare della possibilità della luce, della gioia, della speranza. De Caussade distingue tra le anime di fede e le anime d’amore, le prime vivono nelle tenebre, le seconde nella luce: «Il puro amore – dice – vede, sente e crede; la pura fede crede senza vedere né sentire; da qui deriva la differenza tra l’uno e l’altra; essa è fondata solo sulle apparenze, che non sono le stesse, poiché, in realtà, così come lo stato di pura fede non manca d’amore, lo stato di puro amore non manca né di fede né di abbandono». È vero che lo spirito soffia dove vuole, ma bisogna lasciargli spazio, altrimenti, anche volendo, non potrà soffiare. L’anima di fede ne lascia, di spazio, non aggredisce il Padre e lo accoglie per ciò che è. Per questo verrà la Madre. La fede dell’anima di fede lascia lo spazio necessario all’illuminazione.