Maius quam cogitari potest – Seconda meditazione in settembre

Perdono, fede.

Cosa intendo per Logos come insegnamento e non come grammatica della Natura. Quando Gesù parla della pratica dell’elemosina e dice: “Non sappia la mano destra ciò che fa la sinistra: sarà il Padre vostro a ricompensarvi”, esprime un pensiero relativo al Padre, cioè al fondamento oscuro (oscuro può essere solo buio, qui, o anche assumere un significato negativo, a seconda dell’accoglienza o dell’aggressione che riserviamo al fondamento). Gesù sta spiegando come vivere meglio: la ricompensa è presente, è la vita migliore, il vivere bene, il vivere nel presente non come il presente passivo della melanconia, che non trascorre e fugge, ma come presente attivo di cui ogni istante è eterno. Se cerchiamo una ricompensa nell’orgoglio, stiamo delegando a un futuro o a un’altra parte della mente o a qualcosa d’altro nello spazio il potere di ricompensarci. Se la attendiamo non la troveremo, se non la troveremo non avremo capito che è lo scorrere della vita buona la ricompensa, saremo come uno che credesse che si mangia bene non per stare bene ma perché se mangiamo bene prima o poi qualcuno ci porterà da McDonald’s. Un pensiero come quello formulato da Gesù cancella con un colpo solo tutta l’etica socratica, che è un’etica dell’estetica conscia e non del fluire regolare del subconscio. Ma la frase di Gesù dice ancora qualcosa di più, anche rispetto a se stessa. Insegna un’etica complessa e il di più che dice è di più proprio in relazione al suo primo significato.


Dice che se ci affanniamo nel voler sapere cosa fa la sinistra perdiamo di vista il nostro presente, la nostra vita, e vediamo scomparire il nostro benessere, mentre se non guardiamo cosa fa la sinistra vediamo solo ciò che abbiamo davanti: la bellezza del mondo. Ma andiamo più a fondo. Certe volte è difficile non sapere cosa fa la sinistra. In fondo ne godiamo. Ma possiamo biasimarci per questo? Non avvertiamo forse un tradimento dello stesso precetto nel tentativo esasperato di nascondere alla sinistra ciò che fa la destra? Non c’è la stessa misura di orgoglio, anzi forse una misura maggiore, nel pretendere di essere così buoni e puri da eguagliare Dio che dona per pura gratuità? Io credo che una buona lezione sia volgere questa frase anche al suo contrario e mantenere entrambe le versioni.
È l’insistenza in ogni sua forma a essere dannosa, è l’accanimento, che non permette di vivere il presente. Che sia accanimento verso gli altri, verso un altro particolare, o verso quell’altro particolare che è me stesso poco cambia. Per questo si dovrebbe, oltre al consiglio e al suo ribaltamento, cercare il fulcro di leggerezza, di grazia, appunto, che questa frase lascia ondeggiare nell’aria anche in una sua terza versione:  il perdono di sé. In fondo anche qui si tratta di una grande lezione sull’accettarsi e il perdonarsi, accettare il limite e perdonarsi il peccato. Che orgoglio ci sarebbe in chi pretendesse di essere talmente perfetto da non peccare? Non è alla fine sempre quello il monito? Non affannarsi e non accanirsi. Ad oggi non sembra essersi palesato uno stile di vita che offra più serenità di questo.

Secondo Leibniz il peccato di Giuda non è stato il tradimento, ma l’essersi impiccato. E persino Eckhart sostiene che se pure qualcuno avesse commesso mille peccati mortali non dovrebbe volere di non averli commessi. Nel risentimento, come incapacità di lasciar andare il passato, Nietzsche aveva visto il sommo peccato, il no alla vita. È per questo che il Logos-Gesù non deve essere la volontà di conoscenza razionale-discorsiva, non deve indagare, come in una interminabile psicoanalisi, le cause e le loro infinite catene, i loro simbolismi messi lì in un gioco di specchi dove la vera causa di ciò che siamo diventati non la scopriremo mai: il Logos deve illuminare la verità dell’essere del Padre in noi e accettarne l’impenetrabilità, fiutare l’inganno che si cela nella soluzione facile. Non deve voler capire il suo che cosa è, ma realizzare il suo che è: non cosa è stato nei nostri giorni, nelle nostre esperienze, ma il fatto che sia stato, e che noi siamo.

Dice De Caussade delle anime che si lasciano essere strumento della volontà divina, che esse non «valutano i rapporti esistenti nell’elemento materiale dell’ordine di Dio, il che sarebbe solamente una ricerca dell’amor proprio» (corsivo mio). Ce l’ha con il Logos nella sua versione ontologica. L’indagine è solo desiderio di controllo, quindi ego, esattamente come il narcisismo della mano che vuole sapere cosa fa l’altra mano o il narcisismo che pretende di essere talmente perfetto da eliminare il narcisismo o il narcisismo così narcisista da non sopportare di aver peccato. È insistenza, accanimento nel volere ciò che per sua natura si ritrae. Lo Spirito soffia dove vuole: accettiamo dunque di sapere cosa fa la sinistra, a volte, se ci affanniamo a non saperlo commettiamo lo stesso errore dell’affannarci a saperlo, accettiamo la piccola misura di orgoglio nell’obbedienza. Lo Spirito soffia dove vuole: accettiamo di aver fatto il male, a volte. Facciamoci piccoli. Dobbiamo imparare a farci piccoli, farci bambini e vivere il presente – i bambini non hanno ricordi, o, meglio, non li trattano da “ricordi”. I bambini vivono il presente e non si accaniscono: è il presente, il regno dei cieli. Guarda un bambino: se un gioco è andato male si volta e s’è già dimenticato, pensa subito ad altro: si fida della vita.
Questo è il vero significato di fede, come affidamento, come affidarsi. Molti di noi sono portati a non comprendere la natura della fede. Tommaso parla di fede come di un “pensare con assenso”, mentre noi siamo portati, spesso a causa della pessima educazione religiosa, a considerare la fede come uno smettere di pensare, una sospensione dell’incredulità: “Credo perché è assurdo”. E infatti è assurdo, e ragionevolmente ne fuggiamo, spesso ne ridiamo, ancora più spesso condanniamo questo atteggiamento perché lo consideriamo – e a ragione – foriero di pericoli per chi lo cova e per chi sta intorno a colui che lo cova. Intendiamo, insomma, la fede come qualcosa di fronte a cui la ragione deve fermarsi e magari lasciar parlare un qualche libro, e magari prendendo per verità letterali quelle che sono chiaramente metafore usate proprio per esporre alla ragione fenomeni che la vita vive affinché la ragione possa riconoscerli nella vita cui appartiene. Ma la lettera uccide, diceva Paolo. Non stanno così le cose, e possiamo sperimentarlo su noi stessi. Il punto è proprio che la fede è qualcosa che si sperimenta: è come gettarsi nell’acqua e scoprire che si galleggia, è come gettarsi nel fuoco e scoprire che non si viene bruciati. La fede è un fidarsi della vita, non un paletto imposto al pensiero, ma un assenso parallelo, come dice Tommaso, un sapere che il pensiero ha  sull’atteggiamento che egli stesso deve tenere se vuole vivere bene, e se vuole che ciò che non comprende sia compreso non come inconoscibile mistero, ma semplicemente da organi che non sono gli organi del pensiero.