Kraftwerk Tapes

Per accertare ogni anno che molti di loro non fossero più in vita, li chiamavo ogni mattina cliccando sui numeri di un database estratto dall’elenco telefonico del ’96. Gli esercizi, le ditte, dico. Spesso – ex imprese casalinghe: uomini-ditta – rispondevano le vedove – vedove di uomini-ditta: esperienza nel rispondere al telefono – «no, non c’è Gaetano: è al campo santo», espressione tipicamente pesarese che segnala la tendenza ad attribuire primato al corpo nell’individuare la persona. Quando qualcuno rispondeva, sul monitor la faccia fatta di quadrati apriva la bocca come se stesse parlando, e sorrideva. Altre volte il computer componeva numeri scomparsi, numeri di cubi di cemento vivo gettati nei cerchi più esterni della città e della campagna, strisce di cerata appese a cancelli elettrici, cubotti privi di piastrelle, tirati su dove prima c’era un rigagnolo o un acquitrino – è una zona paludosa questa –: il segnale correva sulle colline, tra le falegnamerie a conduzione familiare, le serre, i camini e le galline, per trovare solamente i locali ormai deserti: contenitori abbandonati di vasche di dischetti da 3½, pezzi di mac classic o di ibm pre-Win98, vecchie stampanti a getto di inchiostro, basi orfane dei cordless. Allora il segnale mi tornava ansioso con un tu-tu-tu, e sul monitor la faccia fatta di quadrati aveva uno sguardo perso e malinconico. Ma c’erano anche i telefoni che attivavano altri telefoni: per il computer erano risposte, la faccia fatta di quadrati apriva la bocca felice, solo che al posto di una voce che diceva «pronto?» nella cuffia sentivo un altro telefono squillare diversamente dal primo: uno squillo allegro e vetero-elettronico: la traduzione che il primo telefono mi faceva della voce del secondo telefono: erano i telefoni che si attivavano da un ambiente all’altro cercando il loro padrone; immaginavo il loro rincorrersi in spazi vuoti e placidi, il raggio del sole che da una finestra quadrata illuminava scrivanie o telai o tecnigrafi o pialle bicombinate. “Attivo” segnavo in questi casi nel database. “Defunto” in tutti gli altri.

Zion Train 2008 (ri-editing)

Pensa a una cosa che le accade prima di addormentarsi. Ci sono degli omini, degli automi. Fanno delle cose con gli arti e gli organi fonatori, fanno movimenti e suoni. In quel momento lei è l’occhio completamente estraneo che vede tutto questo obiettivamente, e questo è l’illecito assoluto, ovvero l’impossibile. E dunque, appena ne prende coscienza, la visione si dissolve.
Tiene il gomito nell’angolo del finestrino del treno. Sente sulla guancia la pelle rovinata del palmo della mano. Sente la punta del gomito vibrare con il treno. “Vado da Gabriele perché voglio vederlo”, si rigira nella mente questa frase. Le sembra fatta di parole senza contorni. Non afferrano le cose, come le ombre delle nuvole. Di notte scrive le sue lettere a Gabriele, scrive di come si sente, di cosa sente per lui. Al mattino rilegge le lettere prima di spedirle, e sono loro a dirle cosa prova. Quando se n’è accorta ha anche capito perché le lettere di Gabriele non le dicono nulla.
Sente sulla guancia la mano rovinata dal detersivo economico che usano nel ristorante dove lavora. Quando all’istituto pregava, le sue mani si univano ed erano lisce e morbide. Era come non sapere quale mano stesse toccando l’altra. “Ma di’ soltanto una parola e io sarò salvata”, solo questo ricorda. È sola nel vagone. Il colore del treno è della stessa pasta del sonno, fissa la campagna fuori, ed è come se in ogni istante si fosse appena voltata. Scava i piani del paesaggio, loro si allontanano. Il nome ‘campagna’ è esile, inconsistente, puro suono: stupido, strano nome. Parola. Oggi pensa che Gabriele è solo più abile a vivere nelle parole volanti, a saltare dall’ombra di una nuvola all’altra. Si fa notte e i campi spariscono prima che riesca ad aggrapparvisi.
L’esperimento la viene a trovare ogni giorno, da tanto tempo che non riesce nemmeno a ricordarsene. L’esperimento lo ha cominciato lei, crede. Ogni giorno lei lo ha provocato sperando in una determinata risposta, e ogni giorno lui ha restituito la risposta contraria, di giorno in giorno più chiara, più perentoria, più irrimediabile. L’esperimento non è più una sua volontà, è cresciuto fino a diventare enorme e contenerla: da tempo ha il sospetto che sia l’esperimento a provocare lei a provocarlo, lo fa per poterle dare ogni volta la risposta che lei non vuole e per non darle la risposta che lei spera di ottenere. L’esperimento si dispiega ormai istante per istante, senza che possa fermarlo. Oggi ha la certezza che è l’esperimento a sperimentare lei. Che è l’esperimento che ora le sta facendo cercare la campagna, per dimostrarle che la campagna non le dice nulla, che la sta portando da Gabriele, per renderle inequivocabile che Gabriele non è nessuno. Oggi è convinta che, una volta persa, la voce delle cose non può tornare; e che lei, una volta uscita, non può rientrare. Pensa che anche il treno è estraneo: anche se il treno e le cose corrono paralleli e non si toccano mai, pure essi appartengono allo stesso mondo.
La soluzione, pensa, è una parola semplice e pura, la più rara del mondo. Una parola della quale ognuno è dotato, ma che una volta perduta non si può diseppellire. Il treno si ferma. Sente salire un’acqua di alluminio nella bocca. Scende. Non c’è nessuno ad aspettarla. Esce dalla piccola stazione. Nella notte attraversa la città, palazzi ignoti. Pochi sconosciuti non la vedono e parlano di vite riuscite. Ma non ha più invidia, né vergogna. L’orizzonte buio oltre i palazzi si allarga al tempo dei suoi passi. Gli va incontro e lui diventa immenso. Ora la sabbia le appesantisce i piedi. Poi le piccole onde della riva le riempiono le scarpe. Cammina e non ha paura del gelo e del vestito che si gonfia. Pensa alle parole esatte del silenzio.

Nella condizione irrevocabile

Il fatto che si possa decidere di recarsi e vivere nel futuro non significa che chiunque possa tornare indietro nel tempo ogni volta che lo desidera, quindi la mia massima aspirazione – svegliarmi ogni giorno alle cinque del mattino – non è assolutamente favorita dall’esistenza dei viaggi nel tempo. I viaggi nel tempo sono istituzionalmente regolamentati, forzatamente collettivi – dato che sarebbe un delirio organizzarne di individuali, e quindi non si può scegliere a piacere il momento in cui si torna – e tecnicamente macchinosi: ci sono due convogli al giorno, uno alle dieci del mattino e uno alle diciotto, tre nei giorni festivi, durante i quali è previsto un convoglio serale alle ventidue. È la prima volta che vengo nel futuro, però ti chiamo spesso, quasi due volte al giorno, anche perché dal passato tu non puoi chiamarmi per una qualche ragione che un paio di individui – dei quali una eri tu – hanno tentato di spiegarmi senza ottenere risultati. Intanto noi mangiamo e dormiamo qui nel college dove io sto curando un abstract sul lavoro di un’artista italiana contemporanea -contemporanea qui -, Marzia Beltrami, le cui opere – almeno quelle disponibili qui al museo del college – sono delle sfere trasparenti che contengono omini vestiti da Santa Klaus, tronizzati su stelle argentee dall’aspetto marino o in paesaggi di tecnologia superata, feticci di macchine a energia manuale; qui abbiamo tre sfere di diverse grandezze, due maggiori e una minore. La cosa interessante è che la persona che dovrà giudicare il mio elaborato è la stessa cui, in uno studio di legno di ciliegio, chiedo di mostrarmi come se ne scriva uno e che di fatto redige sul momento una metà di quello che io le dovrò presentare.

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Ex villaggio olimpico state of mind

Scendendo dal treno a Torino eri sereno, andavi a vedere la foresteria dove una camera singola ti attendeva e ti avrebbe accolto per tre mesi invernali: consigliata, la foresteria, dai preti. Immaginavi il lungo corridoio, consegnato su un lato ai fedeli pannelli di legno di noce intarsiato, la sua navata attraversata dai meditabondi ospiti, l’altra parete ritmata dalle porte, una e un’altra e un’altra ancora e ancora fino alla tua porta, la tua camera con gli spessi mobili di legno, la scrivania, la libreria da colmare e colma un’ora dopo l’arrivo, l’inverno a Torino.
Scendi dal treno a Torino e sei a Torino Lingotto, e devi trovare la foresteria. Ti guardi intorno e per la prima volta realmente realizzi il significato del nome della zona dove ti hanno detto di recarti: Ex villaggio olimpico, dove per quattro giorni e fino a due minuti fa “villaggio” faceva caldo e comunità, e “olimpico” vicino a “villaggio” sapeva di prati e campi da calcio e da tennis, ed “ex” faceva riutilizzo sociale, mano salvifica e provvidenziale; ora vedi che “olimpico” sa di evento di tecno-mercato, “villaggio” sa di divisione dormitorio ed “ex” sa di residuo di un evento trascorso, spazzato dal vento. Così: sei al centro dell’imponente agglomerato, l’organo transitorio che la città si è costruita e ha poi abbandonato a se stesso. Altresì comprendi, improvviso e inquietante, il significato di “Palazzina 14” che ti hanno detto di cercare e che ora riconosci: palazzina, palazzina, tuo dio, come ti è accaduto di narcotizzare il sostantivo? Cerchi Palazzina 14 tra un mucchio di Palazzine che assomiglierebbe alle Cellette se le Cellette fossero l’ambientazione di Hokuto No Ken: ogni Palazzina è altissima, bianca e stretta, e reca subito sopra all’entrata una bandiera rossa che ne indica il numero, cioè il nome; alla base di ognuna i vetri sporchi su due lati mostrano un atrio dalle pareti azzurre contenente una scrivania di plastica arancione, una sedia in pvc; venti Palazzine vuote nel deserto, alle spalle delle quali s’impongono alla vista un enorme cerchio rosso, un indistinto monumento di metallo e ancora dietro la stazione di Torino Lingotto dalla quale sei sbucato ignaro come un topo. La numerazione segue una logica ignota simile al caso, e solo ripercorrendo in diverse combinazioni il già percorso giungi alla base di Palazzina 14: sulla sedia in pvc siede un uomo che tiene sulla scrivania di plastica arancione, tra le dita anellate, un quadernone a scacchi.

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Last from Mars

– Buongiorno, chiamo dalla Brìllar. Posso parlare col titolare?
– Mi avete già chiamato ieri.
– Oh, mi scusi, deve esserci un doppione nel database.
– Chi è il doppione?
– Nel senso: nel database ci sono due nominativi riferiti a lei.
– Chi ha il mio nominativo?
– No, vede: non è che qualcun altro ha il suo nominativo; è lei che ne ha due.
– Quindi sono io il doppione?
– Non volevo dire questo, v…
– E di chi sarei il doppione io?
– Di lei stesso.
– Allora toglietemi.
– Quale dei due?
– Quello più antipatico. Com’ero ieri?

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Back to Mars 2

– Buongiorno chiamo dalla Brìllar. Ha mai pensato di installare un impianto di climatizzazione?
– Dato che questo è un negozio all’aperto l’idea ha dell’assurdo.
– Se le condizioni sono queste è evidentemente infattibile.
– Non le sembra che un’idea del genere sia del tutto insensata?
– Stante la situazione da lei descritta non si può prendere in considerazione.
– Ecco: quindi è un’idea priva di ogni validità, come ho già detto, assurda. Lei si rende conto che fa richieste assurde?
– No.
– Lei è inconsapevole. Arrivederla.
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Brìllar was a gas

– Buongiorno signora, la chiamo da Al Qaeda cellula di Pesaro, spero di non averla disturbata. Vede, noi ci occupiamo di dirottamenti aerei, armi di distruzione di massa e allestimento di attentati kamikaze. Dato che siamo in promozione la stiamo contattando per proporle il nuovo pacchetto composto da mini-atomica a raggio monochilometrico, perfetta per l’eliminazione dei vicini, più schermo anti-radioattivo per l’abitazione.
– Co-cosa…?
– Scherzo, signora. Chiamo dalla Brìllar e oggi vado in ferie.

Call Center from Mars (bonus tracks)

– Buongiorno signora, la chiamo dalla Brìllar, ci occupiamo di climatizzazione, stiamo proponendo delle consulenze gratuite a chi volesse valutare le nostre offerte. Lei possiede già un climatizzatore?
– No, non ce l’abbiamo il climatizzatore.
– Le può interessare una consulenza con il nostro tecnico, signora, naturalmente senza alcun impegno e nel momento che lei preferisce?
– Ma le ho detto che non ce l’abbiamo il climatizzatore!
– Appunto, signora, infatt…
– Insomma, come glielo devo spiegare, non ce l’abbiamo il climatizzatore!
Clic.

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