Nella condizione irrevocabile

Il fatto che si possa decidere di recarsi e vivere nel futuro non significa che chiunque possa tornare indietro nel tempo ogni volta che lo desidera, quindi la mia massima aspirazione – svegliarmi ogni giorno alle cinque del mattino – non è assolutamente favorita dall’esistenza dei viaggi nel tempo. I viaggi nel tempo sono istituzionalmente regolamentati, forzatamente collettivi – dato che sarebbe un delirio organizzarne di individuali, e quindi non si può scegliere a piacere il momento in cui si torna – e tecnicamente macchinosi: ci sono due convogli al giorno, uno alle dieci del mattino e uno alle diciotto, tre nei giorni festivi, durante i quali è previsto un convoglio serale alle ventidue. È la prima volta che vengo nel futuro, però ti chiamo spesso, quasi due volte al giorno, anche perché dal passato tu non puoi chiamarmi per una qualche ragione che un paio di individui – dei quali una eri tu – hanno tentato di spiegarmi senza ottenere risultati. Intanto noi mangiamo e dormiamo qui nel college dove io sto curando un abstract sul lavoro di un’artista italiana contemporanea -contemporanea qui -, Marzia Beltrami, le cui opere – almeno quelle disponibili qui al museo del college – sono delle sfere trasparenti che contengono omini vestiti da Santa Klaus, tronizzati su stelle argentee dall’aspetto marino o in paesaggi di tecnologia superata, feticci di macchine a energia manuale; qui abbiamo tre sfere di diverse grandezze, due maggiori e una minore. La cosa interessante è che la persona che dovrà giudicare il mio elaborato è la stessa cui, in uno studio di legno di ciliegio, chiedo di mostrarmi come se ne scriva uno e che di fatto redige sul momento una metà di quello che io le dovrò presentare.


Decido di andare in spiaggia, raggiungere gli altri: gli scalini del college si aprono su una parallela della strada che costeggia il mare e dagli scalini alla spiaggia ci vanno cinque minuti: si prosegue la grande via interna fino all’altezza del nostro ombrellone, e poi si taglia per la traversa, una strada corta e larga, sulla quale sia affacciano ville importanti, gigantesche. È là che per la prima volta vedo il mio primo fuochista: un ragazzo alto, muscoloso, con i ricci biondi tagliati corti e lo sguardo nobile; con maestria, con leggerezza da rallentatore, sta celebrando dei passi, i passi di uno sport che impone, per bellezza e assieme per tecnica, delle forme: al termine dei passi genera dalle mani una sfera di fuoco la cui traiettoria prosegue in principio davanti a lui e poi si inarca, innalzandosi a due metri dall’asfalto: la sfera è accanto a me appena supero il suo generatore, poi mi vedo a mia volta superato dalla sfera. Proseguo, con piacevole inquietudine, verso la spiaggia. Il nostro ombrellone è nella zona poco affollata a ridosso del limite nord, dove la spiaggia termina per lasciare spazio a un terrapieno di cemento.
L’indomani, dopo una breve visita al college dove la relatrice mi suggerisce graziosa di non preoccuparmi, ché ci pensa lei a redigere il mio elaborato, faccio la stessa strada verso il mare con Karbo, che è il più anziano del gruppo di amici che come me sono venuti nel futuro. Il giovane biondo è ancora lì a generare la sfera, e attorno a lui vi sono altri che stillano dalle mani piccole fiammelle; ma non hanno la sua consapevolezza tecnica, né lo sdegno altezzoso dello sguardo che ad essa si accompagna. Il Karbo li scruta con odio: quando gli chiedo spiegazioni di quello sguardo mi dice che lo fanno già da tempo e che la temperatura si sta alzando troppo. Mi dice che c’erano stati anche degli incidenti, in passato. Mia sorella, dice guardando dritto davanti a sé a denti stretti, e non dice altro.
Trascorre qualche giorno mentre la mia relatrice prosegue nella redazione del mio elaborato al fine di presentarlo a se stessa affinché venga da lei stessa giudicato. Io continuo ad andare al mare con gli altri. Il cielo è ogni giorno più scuro e sulla sabbia bagnata e sporca della riva battono onde torbide di colori sconosciuti. Stendiamo gli asciugamani sulla spiaggia. Da due giorni ho il cellulare spento: ho dimenticato il caricatore nel passato, e ormai ritengo che aspettare di tornare nel passato sia più comodo che cercare di farmi prestare e dover restituire un caricatore: ho già deciso che domani mi imbarco sul convoglio della mattina, quello delle dieci, e vengo a trovarti direttamente.
Ma al mattino dopo mi sveglio tardi, sono le undici, il convoglio è già partito. Raggiungo gli altri al mare passando per la solita strada: nella traversa dalle grandi ville il fuochista biondo sta generando sfere di fuoco enormi, che salgono di qualche metro e poi si entropizzano in fumo nerissimo che si disperde nell’aria; accanto al maestro si sono moltiplicati i fuochisti. L’aria è rovente, e me ne accorgo solo ora ma è da quando sono uscito dal college che mi brucia la pelle. Scendo in spiaggia; proprio accanto alla scaletta che conduce dal cemento alla sabbia due giovani si stanno palleggiando una sfera di fuoco; uno dei due, quello che guarda verso il mare, indossa una maschera che gli copre tutta la testa, un volto bianco e grinzoso, calvo e col naso adunco. Arranco sulla sabbia, fredda perché il sole è coperto dal fumo, fino all’ombrellone e dico a Camilo:
-Ma vi rendete conto di quello che sta succedendo?- indico il mare che è un fluido di colori innaturali e indefinibili, il cielo è sempre più nero, si respira a fatica e l’aria brucia la gola, -questa situazione sta per trasformarsi in una catastrofe.
Ma non lo dico credendoci, sono il solito catastrofista che parla di catastrofi per farsi rassicurare. Guardo Camilo e mi rendo conto che indossa una specie di muta nera da sub, con una linea bianca, simile a una cerniera, che gli scende di lato dal collo e termina poco sopra la vita in una piccola piramide rossa.
-Sì, è una catastrofe- mi dice lui serio. Dietro di lui Paolucci indossa la stessa muta e ha anche un casco: nero e triangolare, con un visore nero e opaco, e anche il casco ha una linea bianca che scende dalla tempia destra fino all’altezza della bocca dove devia orizzontalmente per terminare all’altro lato con una piramide rossa.
-Devo partire il prima possibile- sento chiaramente che l’agitazione è una risposta adeguata alla mia condizione. Attorno a noi l’aria è un esplodere di disegni di fuoco e fumi neri.
-Non si può più tornare- mi informa Camilo, -l’ultimo convoglio è partito stamattina, non ce ne saranno più: hanno avvertito.
Il calore acquista improvvisamente una consistenza inimmaginabile fino a un istante fa. L’agitazione diventa panico.
-Hai un caricatore per il cellulare? Devo chiamare mia morosa.
-Anche le comunicazioni con il passato sono bloccate.
Sono senza parole, il sudore mi cola ovunque. Sto cercando di capire quanto è vero tutto ciò, perché fatico a concepire l’irrevocabile. Ho sempre faticato a concepirlo.
-Tieni- mi allunga un libretto quadrato, grande quanto il booklet di un cd ma molto spesso, con la copertina e le pagine plastificate. La copertina è nera, a tre quarti verso la brossura c’è una banda verticale bianca che termina quasi sul bordo con l’immagine di una piramide rossa. Lo apro, dentro ci sono dei testi su due colonne, come se fosse un libretto di istruzioni, corredati da disegnini neri stilizzati: omini che toccano cisterne e prendono fuoco, omini che si avvicinano a fornelli e lampade e prendono fuoco. Mischiati ai capitoletti di istruzioni, apparentemente senza una logica, ne compaiono alcuni intitolati Ha senso vivere senza speranza? o Ritorno a una biologia senza felicità. Realizzo l’irrevocabile, muore in me con violenza ogni sentimento della revocabilità. Sento il terrore, il terrore e la disperazione.
Devo raggiungerti. Devo avvertirti. Questo è più forte di tutto e dentro di me io urlo che devo sentirti.
Lo urlo talmente forte che mi sveglio.

Capisco dove sono e cosa è successo. Respiro.
Respiro ancora.
Accendo la luce sul comodino. Pigro guardo l’orologio.
Sono le cinque del mattino: mi sono svegliato alle cinque del mattino.
Svelto dai, in piedi a fare il caffé, approfitta.