En-Sof Vs Horobi (Idaro no Mechadabu Rumaka 2) 2008 (ri-editing)

Il ciclone si sposta sulla pagina obbedendo a leggi digitali. Là dove passa le lettere sono prese nel vortice e le righe si sciolgono in nuvole bianche e nere. Il ciclone batte il mondo a due dimensioni di Documento1. Ti domandi quali significati assumano le lettere trasformate nel vortice dello screen saver. Il monitor irradia candore sulla tastiera e sulla scrivania di legno. Evoca lo spettro del bicchiere con le penne. Gli occhi ti bruciano. Li strizzi. Quando li riapri sullo schermo c’è ancora la landa di Documento1 sconvolta dalla furia della tempesta. Senti odore di scarpe da ginnastica e ganja. Da quando sei uscito dalla discoteca un allarme monotonico suona impietoso accanto al tuo timpano. Hai la testa appoggiata sulle gambe della ragazza. La ragazza è addormentata, attorcigliata e trasversale, senza cuscino, il viso rivolto al soffitto. Ha gli occhi chiusi ma sembra che guardi in alto. Ha ancora addosso i pantaloni militari e la maglietta NY. Ha un aspetto familiare. Il display della sveglia segna le sei del mattino. Cambi posizione, ti rovesci, abbracci la ragazza, chiudi gli occhi. Cerchi di disseppellire il mondo sonoro che scorre al di sotto dell’allarme monotonico aggrappandoti al rombo di un aereo o alle sirene giù in strada. Ora ricordi che la tribù dei pusher portava abiti costosi firmati Nike e Fila. I chioschi la foraggiavano di panini con salsicce e peperoni, e lattine a due carte e cinque. Le autoradio suonavano musica araba, funk e techno. I lampioni inchiodavano i colori sulla strada. Più in alto si levavano le torri nere. Se ti addormentassi di nuovo, ora, vestito, abbrancicato alla ragazza e al plaid, vi svegliereste all’ora di pranzo, sudati e infastiditi. Consideri che l’allarme monotonico non è spiacevole. Lo assecondi.
L’autobus percorre veloce la strada all’alba. La città si appresta a ruotare con il resto del pianeta. Nella diga silenziosa si stanno aprendo varchi. Tra poco il formicolìo di passi e voci dilagherà tra le architetture. La ragazza siede sulle tue ginocchia. Ha occhi stanchi e rossi che si nascondono dietro i capelli fini. Dietro di lei il cielo s’illumina piano.
– Cosa guardi? – domanda.


– Guardo fuori.
– Fuori dove?
– Lontano. Sto guardando lontano.
– E cosa vedi?
– Il motore.
– Il motore di cosa?
– Di tutto.
– E come fa?
– Fa Bum. Cia. Bum. Cia. Bum. Cia.
– E com’è fatto?
Non rispondi. Ti è sembrato di scorgerlo laggiù in fondo alle nuvole. Ora vedi solo le nuvole che aspirano al bianco e c’è come un pianoforte triste, insistente. Nel passaggio dal sonno alla veglia l’allarme monotonico sorge da lontano e si va a posare alla radice del tuo timpano. Ci resta. Vai con la mano a dove immagini sia il telecomando, conti i tasti per premere play. Da qualche parte nel suo angolo il lettore ronza, poi la musica comincia. Speri che copra l’allarme monotonico, che ritieni responsabile del tuo risveglio. Forse è meglio svegliarsi. Riadagi il capo prendendo la mano sinistra della ragazza tra le tue, chiudi gli occhi pensando al regno di Documento1 sul quale si sposta inesorabile la perturbazione che risucchia le lettere nel gorgo dell’insignificanza. Lo fissi e ti accorgi che il vortice dello screen saver, prima di collassare nel proprio cuore, inverte la corrente e ripone le lettere al loro posto, va a ritroso. Altrimenti non le ricorderebbe, pensi. Al nero chiedi cosa significhino le lettere, ma il nero dà risposte oblique care al sonno.
Hai visione del motore della città. Un marchingegno di milioni di incastri si rinsalda senza trauma né scatto allo scivolare del tempo in un determinato istante del mattino pallido. Ti accorgi che il sedere ti balla su una superficie liscia e dura. Sei sull’autobus. La mano della ragazza è piccola e morbida nella tua, e la senti pulsare. Pensi a Ufo Diapolon: si contraeva fino a penetrare nell’avversario per poi dilatarsi di nuovo e farlo esplodere dall’interno. Guardi oltre il vetro sporco dell’autobus, tenti di cogliere la vibrazione che arriva da lontano: la senti, è come il vento che lambisce la pelle quando ti tiri su la maglietta.
– È un cuore. Un cuore nero al centro dell’universo, esattamente nella direzione nella quale sto guardando. Dà il tempo. Tu lo vedi? – dici alla ragazza.
– No…
– Forse non c’è più. L’ho sognato troppi anni fa – ti gratti viso e occhi con la mano contratta, – dico certe cose quando lo sento, continuo a dirle quando non lo sento più.
– No. È così, – fa la ragazza, – è un vecchio gigantesco che dorme in un’ansa dell’universo, e si rivolta raramente nel suo sonno. Quando lo fa me ne accorgo perché la mia vita cambia di colore e appendo un nuovo quadro nella mia stanza, e ascolto melodie stranite. Lui mi dà la nota, io scelgo tempo.
– Il mio cuore varia velocità con il cosmo.
– Ti sbagli. Il cosmo non ha ritmo, altrimenti il mio cuore sarebbe capace di sentirlo. Guarda.
Vedi qualcosa pulsare sotto la sua felpa.
– Il cosmo è un suono che riverbera – conclude.
L’asfalto si punteggia di scuro, gocce rigano i vetri dell’autobus. Fa freddo. All’improvviso senti battiti immani, tutto trema. Si aggiunge come un coro. Forse ci sarà una catastrofe, pensi che devi assolutamente svegliarti prima che ciò accada. Però ci tieni a dire:
– Sei tu che ti sbagli: il cosmo detta il tempo. È un tempo complesso, dato da una sovrapposizione, come i beat per minuto. Guarda.
Indichi fuori dal finestrino: la lumaca sta attraversando la città. Ha antenne enormi e sulla loro sommità gli occhi stupidi osservano la città che la lumaca sta schiacciando. Il suo muscolo a ventosa aderisce completamente agli edifici. I tonfi sono i battiti del suo cuore. Il coro è diventato il rumore della pioggia fitta che batte sul guscio immenso, la sua sommità ondeggia incredibilmente vicino al cielo scuro. Quando lampa tutta la lumaca diventa bianca per un istante. Vedi i lampi riflettersi sulla fila di finestre quadrate e regolari che si rincorrono sul muro di una scuola bianca. L’occhio mostruoso e idiota della lumaca si abbassa condotto dall’antenna, e scruta attraverso le finestre: vedi il corridoio e vedi le porte delle aule aperte, le aule deserte, mentre piove sul cancello di ferro del campetto da calcio e sulla rete da pallavolo scossa dal vento.
Smette di piovere. Esce il sole. Della lumaca non c’è più traccia. L’orologio sul frontale della scuola segna le otto e quaranta. Sulle finestre del corridoio scendono pochi rigagnoli. Sui muri delle aule sono appesi dei disegni, uno raffigura la lumaca, c’è la tua firma in basso a destra. Dici al tuo compagno di banco:
– L’ho disegnata io. L’ho chiusa nel disegno.
– Cosa sta succedendo?
Te lo ricordi: è il tuo compagno che conosceva tutto
– È En-Sof contro Horobi – ti spieghi meglio – Ufo Diapolon.
– Può darsi, ma se invece sei in un sogno?
Ti svegli. Sei su una panchina di pietra di fronte a una chiesa che staglia il frontale imponente, color terra, sull’azzurro lucido del cielo. Poi il sole ti colpisce al volto.
Ti svegli di nuovo. Sono le sei e quaranta. Il monitor apre un lago nella stanza buia. Meno buia. La ragazza sta dormendo, hai la mano tra le sue. Senti la sua mente chiederti:
– Ti senti solo?
Pensi: – Una risposta affermativa ti farebbe del male?
– Ne dedurrei che c’è qualcosa che non so fare – dice la mente della ragazza. Ha un respiro caldo, a volte fa rumori col naso. Hai paura per lei.
– C’è una parte di noi dove nessuno può arrivare. C’è anche in te. Non mi fa paura sapere che c’è un lato oscuro di me che non conosci, ma in certi momenti mi indigno perché c’è sicuramente un lato di te al quale non ho accesso. E mi manda in collera come se dovessi avervi accesso.
– Al tuo fianco c’è sempre la collera.
– Insoddisfazione. È insoddisfazione.
– Ti stai addormentando – pensa la ragazza, – ti stai di nuovo addormentando. Ricordati quello che mi hai detto oggi.
– Cosa ti ho detto oggi?
– Mi hai detto che una civiltà filosoficamente matura misurerebbe il tempo in bpm. Ti stai addormentando.
Siete seduti davanti alla chiesa. Senti la superficie bagnata della panchina sotto il sedere, i tuoi pantaloni sono bagnati. Piove. Vi voltate indietro. La gente sta fuggendo dappertutto e le sirene suonano proprio vicino a voi. L’occhio gigantesco della lumaca ora vi scruta dall’alto. È un bulbo verde, e dentro c’è un puntino nero, che è la pupilla. Senti un brivido, e l’acqua ti entra tra gli indumenti e la pelle, e nelle scarpe. Poi qualcosa grida ed è come se fosse l’occhio a gridare. Ti svegli.
Sono le sei e quaranta. Vuoi rimanere immobile nel buio affinché non cambi nulla e tu non senta spostarsi le cose che sono dentro di te. Ti sembra di essere nato in questo momento. Senti braccia e mani intorpidite. Apri gli occhi. Ti accorgi che dove finiscono le tue braccia, poco prima dei polsi, cominciano a ritroso quelle della ragazza. Ti svegli.
La musica emerge piano da un florilegio di suoni eterogenei, seguiti dall’allarme monotonico, ora più debole di prima. La finestra trasmette strisce azzurre nella stanza. Sei sudato e hai qualche brivido. La mano della ragazza è ancora tra le tue, le vostre pelli hanno aderito e le senti umide. Lo spettro del bicchiere con le penne si è fatto più luminoso: ora si vede la D blu che lo solca a grandi balzi e la luce si riflette sulla superfice trasparente delle penne. Il monitor si apre su Documento1. Ti domandi quanti significati assumano le lettere trasformate dal vortice dello screen saver. Proprio allora le strisce azzurre della finestra scompaiono. Vedi la pelle verde e ruvida scorrere dietro la serranda. Forma pieghe come un drappo. Non fa alcun rumore. Dura tantissimo.
Ti svegli. Tra le tue mani si forma una mano piccola e umida di sudore. È la mano della ragazza che sta con te da quattro giorni, da quando l’hai conosciuta: sei tornato con lei dalla discoteca, questa notte. Ha la testa sul tuo petto. La sveglia dice che sono le nove. Fuori dev’esserci il sole, il bicchiere è ben illuminato, là, sulla scrivania. Vi si legge la U blu. È primavera. Pensi che sono anni che non ti innamori. Pensi che sono anni che non trovi nessuno. Pensi che ti farai una doccia e andrai di là a preparare la colazione per te e per lei. L’idea ti rende felice, ti senti bene. Pensi che stai pensando e conti i pensieri, e ti senti come sovrapposto a te stesso. In primavera ti piace guardare il sole che sorge in fondo alla via, sembra che passi per la grande porta di pietra. Le coccinelle sono dappertutto, in primavera, e c’è tanto tempo a disposizione. Ricordi allora quel sacchetto di plastica pieno di coccinelle che trovasti da piccolo in riva al mare, in primavera. Era un sacchetto di cellophane gonfiato dall’aria, dentro c’erano centinaia di coccinelle. Hai messo una mano dentro per toccare le coccinelle, erano tutte una sopra all’altra che si agitavano. Affondando il dito hai sentito qualcosa di molle e hai visto qualcosa di rosa tremare sotto le coccinelle. Hai buttato via il sacchetto con un gesto convulso e ti sei strofinato la mano sui jeans. Hai corso sulla spiaggia,  più lontano che potevi dal sacchetto, con il cuore che batteva forte. Mentre corri sulla spiaggia senti dei battiti profondissimi, ritmici, fanno tremare la terra, contrappuntano il percorso del sole. Ti svegli.
Stai guardando l’interno di una stanza. Vedi due persone stese sul letto, attaccate per le braccia. Ma non capisci cosa vuol dire perché non capisci che sei solo una lumaca. Ti svegli.
C’è il battito di un cuore. È un cuore che batte nel petto a cui è appoggiata la tua testa. È il petto del tuo ragazzo. Sta con te da quattro giorni, da quando l’hai conosciuto: all’alba sei tornata assieme a lui dalla discoteca, sull’autobus. Sei sveglia. Hai un fischio nelle orecchie, ma non è spiacevole. Sei un po’ sudata e in camera c’è puzza di chiuso. Dalle strisce della serranda che illuminano il bicchiere pieno di penne e la sua grande B gialla intuisci che è una giornata di sole, e questo ti rende felice. Avverti la musica e guardi il display dello stereo, repeat all, è stato acceso mentre dormivi. Ti alzi e stiri le braccia e la schiena. Ti avvicini alla finestra, la apri affinché entri aria nuova. Metti gli occhi in un varco della serranda, fuori la città è luminosa, è bella. Ti spogli. Spegni lo stereo e vai a farti una doccia.

In accappatoio ti muovi verso la cucina passando davanti alla camera, nella cornice della porta aperta vedi le sue gambe stese sul letto. Prepari la colazione. Mentre attendi che il caffé salga e il latte si scaldi guardi la sagoma del terrazzo dietro alle tende bianche. La luce sembra scomparsa, tutto si è fatto più opaco. Allora cominci a sentire il battito, dapprima lontano, poi fortissimo, il pavimento ora trema. Non puoi resistere. Apri le tende e i vetri, ed esci nell’aria pungente del mattino. Per guardarla strisciare. Così grande, terribile.