Ecco fera faccia di Gwar n.10

…ra Agape stringe Eros all’angolo, destro ancora destro e… bum, mamma mia che sinistro, Eros chiude la faccia dà il fianco, ecco Eros riprende terreno spinge l’avversario ma non tropp… uhu che dritto, Agape accusa stanchezza s’è lasciata pren…dere alla sprovv uhu Eros, insiste sulle huh! tempie, Agape trova l’addome, ancora all’addome Agape, naaa Agape colpisce sotto l…

La carta d’imbarco

soul pieces
Bologna, San Domenico

Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un’idea. “lo credo – disse – che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso – disse – io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri.” Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto.

Platone, Simposio

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Personal Gnosis

Non sia bisbigliato
al prete nella sagrestia
dipinta di viola dal tramonto,
né si vada a rivelarlo,
affrontando l’eremo
grigio e impervio,
al mistico dall’occhio spiritato,
e nemmeno lo si mormori
all’orecchio altero del pontefice
incastonato nel suo trono magnifico

che unicamente per accogliere
la fragilità di sangue e nervi
e ogni affetto e moto di pensiero
e sogno e involontario gesto
di una creatura che spesso ho veduta
dormire su un giaciglio d’alba
cieli e terra
erano e sono.

Ecco fera faccia di Gwar n.8

La sua amica è rinata. Dopo una lunga storia che l’aveva resa stanca, logora, nervosa, egli l’ha ritrovata un giorno luminosa, paga, estasiata. Ha voluto lei che lui conoscesse il comprimario di un tal rinascimento. Ed è per questo che ora lui siede a un tavolo e ascolta un uomo molto sudato dire quanto bene scriva e quale intelligenza sopraffina possieda e quale straordinaria storia di conversione abbia raccontato, Magdi Cristiano Allam.

Ecco fera faccia di Gwar n.7

Di solito non perdona per non ingannare l’interlocutore: l’interlocutore è portato, no, non è portato: è proprio pronto. A prendere il perdono come un proscioglimento, la grazia come inequivocabile indice di scarsa profondità dell’effrazione, no: addirittura come una assunzione di colpevolezza da parte dell’innocente (“Tu hai inventato un caso, lo sapevo, non è mai stato nulla!”). Perdonare senza manifestarlo, dunque, perdonare solo interiormente: per restare nella verità, tutta, su entrambi i fronti: lo pensa mentre è steso sul letto, nudo e a pancia all’aria, mangia una pizza bianca ricoperta di stracchino e si lascia cadere briciole, sale e rosmarino tra i peli del petto, lo sguardo fisso nel convergere di parete e soffitto, la bocca che lentamente mastica.

Ecco fera faccia di Gwar n.6

Che vi sia della vanità nell’obbedienza è cosa che finalmente oggi non lo turba. Ne ha avuto paura in passato; pensava: se la mia obbedienza contiene una briciola di orgoglio, di presunzione etica ed estetica, ecco che tutto cade ed essa nulla vale. Ma ha poi pensato quanto sarebbe presuntuoso e veramente un autoinganno pretendere e fingere e credere di ottenere da se stessi un’obbedienza priva di qualsiasi misura d’orgoglio. Sorride. C’è il sole, ma non è importante.

Fuori (due)

Anonimo, Inferno

O luce delle luci, nella quale, all’inizio, io posi la mia fiducia, ascolta, luce, la mia penitenza! Cattivi pensieri sono penetrati in me, salvami, luce!
Guardai, o luce, alle parti inferiori e vidi una luce; pensai: voglio recarmi in quel luogo e prendere quella luce.
Andai, e mi trovai nelle tenebre del caos inferiore, ma non fui più in condizione di affrettarmi a uscirne per ritornare al mio luogo; mi oppressero, infatti, tutte le emanazioni dell’Arrogante, e la forza dall’aspetto di leone mi tolse la luce che era in me.
Alzai grida di aiuto, ma la mia voce non proruppe dalle tenebre. Guardai in alto affinché mi venisse aiuto da quella luce nella quale avevo posto fiducia.
Allorché guardai in alto, vidi tutti gli arconti degli eoni che, numerosi, guardavano giù verso di me e si rallegravano: non avevo fatto loro alcun male, essi mi odiavano senza motivo.
Quando le emanazioni dell’Arrogante videro che gli arconti degli eoni si rallegravano a mie spese, compresero che gli arconti degli eoni non sarebbero venuti in mio aiuto. Quelle emanazioni, che mi opprimevano con forza, si fecero coraggio e mi sottrassero la luce, che io non avevo preso da loro.
[…]
Di mezzo al caos e di mezzo alle tenebre, la mia forza guardò fuori: aspettavo che venisse il mio compagno e combattesse per me, ma non è venuto.

Pistis Sophia, 32, 2-5; 21

Fuori (uno)

Giovanni da Modena, Inferno

Pietro intanto se ne stava seduto fuori nell’atrio. Una serva gli si avvicinò e gli disse: «Anche tu eri con Gesù, il Galileo». Ma egli negò innanzi a tutti dicendo: «Non so quel che tu dica». E, mentre si dirigeva verso il vestibolo per uscire, lo vide un’altra serva che disse a quelli ch’erano lì: «Costui era con Gesù, il Nazareno». Ma egli negò una seconda volta con giuramento: «Non conosco quell’uomo». Poco dopo quelli che erano lì si avvicinarono a Pietro e gli dissero: «Certamente anche tu devi essere di quelli, difatti anche il tuo modo di parlare ti dà a riconoscere». Allora incominciò a imprecare e spergiurare: «Io non conosco quell’uomo!». E subito un gallo cantò. Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che il gallo canti mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente.

Matteo, 26, 69-75

Le categorie dello spirito

“Oh, ragazzi, attenti, c’è coso… Giulio… Il Dimpe… Che sta vomitando!”. Il Dimpe si è cacciato due dita in gola, e in piedi in mezzo al prato si sforza di vomitare. Chiaramente esce poca roba, non ha in corpo che i funghi e il tè freddo con cui li ha mandati giù; ciò che rende la scena orribile è che sta vomitando in piedi: si infila le dita in gola rimanendo eretto e quel poco vomiticcio che ce la fa a uscire – un liquiduzzo bluastro-verde – gli cola sul collo dai lati della bocca. Pare inoltre avvolto da un’aura malsana – tutti ora non guardano che lui -, mentre è scosso da tremiti violenti: è come se sprigionasse onde negative, amplificate e trasportate dal suonaccio da banshee che emette, una specie di incrocio tra un gorgoglio e un lamento straziante.
Si volta verso i cinque compagni: gli occhi, gonfi di lacrime per lo sforzo, sono quelli di un cucciolo legato ai binari che guarda arrivare la locomotiva:
“…Tran… quil… li… è… nor… ma… le…!”.

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