Altri Bolognesi

Questo racconto è stato scritto un anno e mezzo fa, di getto, durante i festeggiamenti per l’avvento prossimo del Cinese alla guida di Bologna. In realtà è un racconto d’amore, per una persona e per una città. La prima deludeva, la seconda stava per farsi perdonare, o almeno così sembrava. Paradossalmente, la chiusa ha più significato oggi di allora. Intanto, Bella Ciao rimbalza un articolo del Manifesto del 23 ottobre che – per quanto non mi faccia impazzire chi lo ha scritto – centra perfettamente il punto: per chi non è di Bologna: non fatevi infinocchiare: qua della legalità non si vede nemmeno l’ombra; chi fa il grosso con i deboli e si caga in mano con i potenti non è un difensore della legalità: è un vigliacco. Per quel che ci riguarda, lo avevamo già nasato.

Zishan ha preso le faxe nelle lattine da un litro e ride come un vecchio assassino che non si annoia mai di ammazzare. Però le tiene ancora, le vietatissime moretti di vetro da 66 nel frigo. La gente fa avanti e andrìa attraverso la porta stretta della kebabberia, minuscola e irripetibile funzione del mercato multidimesionale. Quella porta divide la luce bianca e bollente espansa nei due metri per due della kebabberia di Zishan dai sassi rossi e gialli imbruniti dalla notte del Pratello, dal selciato massaggiante da cui io (PS) e il Marchese (MI) sudiamo solo a guardarli, là dentro, Zishan e Nadim.

Loro invece stan freschi come rose nelle serra elettrica, due houdini che si costruiscono una macchina da suicidio e poi vanno a viverci dentro come due angeli in paradiso. Zishan è come al solito impeccabile nel camicino, sotto la frangia beat; Nadim, sempre con i muscoli tirati e opachi, i capelli folti ognuno al posto suo. Le moretti, Zishan, secondo ordinanza guazzacomunale, non può venderle, non può vendere bottiglie di vetro dopo le ventuno, e a lui è andata bene che ha una kebabberia, avesse avuto un alimentari al Pratello, alle ventuno avrebbe dovuto stirare la serranda e cantarsi ninne nanne pakistane di fronte alle pinte di qualche pub con i suoi compaesani. Ma dato che il vetro è vietato, Zishan ha preso le lattine di faxe, lattine da un litro, dimmi qualcosa mo, vecchio guazza l’oca nel pantano. E anche i bicchieri di plastica per versarci le moretti in bottiglia, ha preso, e li tiene lì intorriti dietro il banco, e non potrebbe darli via, i bicchieri, perché lui fa i kebab e non ha un bar, ma ha detto a me e al Marchese: e vafanculo guassalòca. Dice che se entro quattro giorni gli sbirri non si accorgono è fatta; dice che tra quattro giorni c’è il Cinese e qualcuno dice che andrà a stare proprio lì al Pratello, il Cinese, che si insedierà al secondo piano della sezione dei ds, buttandoci giù la parete esterna e sostituendola con una vetrata, da oltre la quale Egli ci guarderà benevolo e si farà guardare, seduto su una poltrona rossa, alle sue spalle una parete bianca. Zishan ride con quell’aria affilata, quello sbrego di sorriso e di occhi e di sopracciglia e i capelli da frangia beat. Ha la faccia di uno che invita il fratello a pranzo per sgozzarlo e fargli il portafoglio, ma è buono come i suoi kebab vegetariani. Ieri io e il Marchese gli avevamo consigliato di prendere le faxe da un litro, per risolvere il coprifuoco antivetraglia delle ventuno. Solo che Zishan ha messo le faxe a tre euri e cinquanta, e io e il Marchese abbiamo paura pure di passargli davanti per non dover dire che non prendiamo le faxe a tre euri e cinquanta. Stasera al Pratello c’è l’Apocalisse: sta arrivando il Cinese e tutto cambierà, si torna a respirare. Ce lo aveva detto ieri Totò (AG), che c’era l’Apocalisse.

A proposito, proprio tre sere fa ce ne stiamo uscendo dalle Scuderie, io e Totò, con i bicchieri di plastica in mano. Le Scuderie possono fare tutto: ti danno la plastica solo perché hanno uno spazio esterno e temono che ti inculi i bicchieri: ergo con i bicchieri di plastica si può uscire. No. All’uscita un pupazzo che anche se non gli servono muove i muscoli sovraccarichi uno per volta ci ferma e ci dice che non possiamo uscire. Al “pecché?” di Totò risponde:
-Ascolta, tu sei di Bologna? No, vero? E allora non puoi capire. Si tratta di senso civico.
È molto soddisfatto di questa ultima sua espressione.
-Zenzo givigooo!- fa Totò ribollendo fuori le palle degli occhi, -Zenzo givigooo! Non v’è un’ordinanza che dice di girare senza bicchieri di plastica; v’è una legge che dice di gettare la plastica nei cestiiini, e io ho sempre gettato la plastica nei cestiiini.
-Tu non sei di Bologna- dice l’umanoide guardando l’avvenire alla nostra destra con occhi lucidi, -non puoi capire- sorride malinconico ed eroico.
-Vedi Totò- gli faccio mentre rientriamo a finire quelle birre investite di galera, -c’erano due assunzioni errate nella sua argomentazione: quella ideologica della bolognesità, rispetto alla quale un rispondere “io pago l’affitto, le bollette, le tasse universitarie, la spesa per il sostentamento e quella per il divertimento che posso permettermi” non sarebbe servito a nulla. E poi l’errore logico manifestato nel cercare di maneggiare con imperizia il concetto di senso civico. Accettando queste premesse non potevi andare oltre, sicuramente non è il tipo che ti lascia procedere alla confutazione. Il nandrolone ha le sue idee, immagino qualcosa di simile a mmm… come diceva Matt Groening? …Un mal di testa con le foto.
Totò continua a scuotere il capo ridendo incredulo, ma, ci scommetto, senza perdere la speranza di insegnare la saggezza a chi è senza senno.
Ieri sera, proprio lì al Pratello, siamo io e il Marchese mentre ci facciamo una birra ingobbiti sui tavoli esterni dal Sardo, dopo che una ragazza aveva cercato di lasciarci santini col Cinese e noi a dire “non possiamo votare, non abbiamo la residenza”, cioè era il Marchese a dirlo che io era meglio se tacevo, girato com’ero, come una vite cacciata storta dentro al legno di una bara: un’ora prima a San Francesco eravamo seduti sugli scalini della porta piccola, davanti alla chitarra di Scudellari (RA) io e il Marchese, che se ne era uscito con “ah che poi l’altra volta ho sentito Lucia (BO) che diceva a Paoletta (AG) che Tina (BO) avrebbe deciso di rimanere a studiare e vivere a Tolosa” e io da allora vivevo con un vuoto dentro, un vuoto grande un universo che piange. Come quando ti tappi le orecchie e ti viene la tentazione di pensare “questa è la realtà: il mondo, in realtà, è così”.
-Ma forse non è vero, forse è un proposito…- fa il Marchese con la voce macinata a filo.
Silenzioso: ma non importa, minchia, se è vero o no, se è sogno, pensiero, fatto, scaramanzia, chimera. Non c’entra. C’entra che sono sempre contromano come Paolo Pieretto sulla bici. Mentre al solito faccio scorrere le lacrime da non vedermele più in faccia, le ho fatte scorrere all’interno come ho imparato a fare in quest’aprile piovoso di nuvole e lattine di hollandia, questo aprile che mi ha storto la vita nel legno delle panchine di Bologna la tocca e la gratta, Bologna l’ostile dagli occhi in bemolle. Che allegria, l’attenzione che per me non c’è mai, la via crucis lunga come l’Andrea Costa. Bologna quanto costa. E mentre conto queste cose, il Marchese è già con la testa da un’altra parte, già con la testa a stamattina che è andato alla finanza a sentire se hanno scoperto che vive nel bunker. Il bunker è la casa del Marchese. Legalmente è un magazzino, ma una volta era il rifugio orgiastico del migliore amico di sua madre, un vecchio omosessuale che glielo ha lasciato in eredità come se il Marchese fosse stato suo figlio, il bunker, con il sistema di luci che si abbassano gradualmente e l’arredamento da astronave. E il Marchese ha paura che lo sbattono dentro se scoprono che il bunker non è un magazzino, ché non ha l’abitabilità. Il Marchese dice che lo abbandonerà prima o poi il bunker, che anche alla gente del palazzo non piace che lui sia lì. Perso il Marchese, che lo dice coi suoi occhi acquosi, una paglia dietro l’altra, un po’ spaventato, ometto ogni tanto lontano dalle carezze di Alessia (PE) che gli dice “Amo’” e lo guarda orgogliosa, ma anche quando è lontana lui sa che lei c’è, lo vedi nella sua spina dorsale quando cammina.
Mentre il Marchese era con la testa nel bunker giallo della pinta di doppio malto del Sardo, arriva Totò con tre amiche, due siciliane e un’abruzzese, a dirci “Domani al Pratello c’è la grande festa dell’Apocalisse”.

Che è stasera. Zishan sta secco nella camicia bianca fuori dal Kebab King, fuori anche dai portici, finalmente, e ride tra gli scooter, tiene in braccio un pupattolo minuscolo, due bottoni neri lucidi e quasi nient’altro, dentro un affarino bianco di tela. Il Marchese è estasiato dalla creatura, prende la manina, fa le facce, si agita e si profonde in apprezzamenti e vezzeggiativi. Intravedo Scudellari con la chitarra farsi largo tra la folla verso il culmine del Pratello. Kiarina (TN) mi prende per mano e mi trascina dalla signora della pasta fresca, ma io ho già preso il mattone col formaggio dal calabrese alle sei e quella è una roba che ti sta su. Io e Kiarina facciamo lo slalom del Pratello che si snoda lungo e sinuoso davanti a noi, e passa davanti alla sezione ds gremita dalla gente e dalle bandiere, e finisce nella piazza dove stanno preparando il finale della festa della fine di campagna elettorale e suona un gruppo che fa pizzica e taranta e canta in dialetto, ed è tutto ovunque un esplodere di bandiere rosse e verdi e della pace, ma ci sono anche gli striscioni che stanno fuori dalle finestre della gente che protesta, che vuole dormire, che dice che al Pratello c’è rumore. Il Marchese dice che c’è sempre stato il rumore al Pratello solo che solo oggi c’è la gente così tesa che si fa il viaggione dei diritti civili. “Ma scusa,” dice, “ma vai ad abitare da un’altra parte, che cazzo prendi la casa al Pratello?” Di fronte al Mutenye di Sante (TO) uno ha scritto “Ma se io voglio dormire allora sono per forza un fascista?” Con “dormire” e “fascista” grandi grandi, e “per forza” piccolo piccolo, come se un po’ si vergognasse di doverlo aggiungere, come uno che dice “Ma se io voto Fini sono necessariamente un fascista?” Io e Kiarina siamo dalla signora della pasta fresca che le sta creando dei maccheroncini alle zucchine. Faccio: “Bè, sei feriti. Che stronzata. Se devi far le cose falle per bene. Eravamo a SantoStefano e siamo andati a vedere e siamo passati in mezzo agli sbirri e alle ambulanze senza nemmeno uno sguardo: non avevano proprio l’aria di quelli che stanno cercando di capire chi è stato e che stanno attenti a chi si aggira nei paraggi”. Poi corriamo via, verso Osvaldo, verso il centro di gravitazione del Pratello che stasera è il tratto tra la sezione ds e la piazza col gruppo tarantolato. Il Marchese fa l’ennesimo birrino, che è dalle cinque di oggi pomeriggio che facciamo solo birrini, no, io parto col primo negroni e via, oramai sono un professionista, c’ho più negroni in corpo io in una qualunque sera che Elton John in tutta la strabiliante sua carriera, e poi andiamo alla piazzetta dove stanno seduti tutti ad ascoltare i musici e c’è Paoletta con Totò che rolla la ventesima canna del giorno, e più in là c’è Scudellari con la chitarra spenta appoggiata sul selciato, e poi c’è Ciro (resid.) con la polo rossa del correntone, e Lucia (BO) col piccolo Matteo (BO), e penso se Lucia viene qui e lo fa ancora, se viene qui e per l’ennesima volta mi chiede “come stai?”, giuro che questa volta la inondo di nucleare finché non le si scioglie la faccia nell’arco di sette chilometri. Lucia arriva e mi chiede “sei arrabbiato con me?”. Scorgo una bandiera dei verdi e rinuncio al nucleare. “No, Lucia, non sono arrabbiato con te.” Il Marchese tira un sospiro da culturista alla nona ora del giorno, Bush non firma il protokyoto ma fortuna che ci siamo noi protoumani, che ci facciamo passare anche la danarosa voluttà di chiedere perché dovrei essere arrabbiato con lei. Quando se ne va domando al Marchese se le ha detto di avermi detto quello che mi ha detto ieri sera. “!No”. Scolo il negroni e mi avvio col bicchiere di plastica vuoto verso Osvaldo per il secondo giro. Viva il riciclo della plastica. Mi bevo il secondo negroni mentre una ragazza balla con un pastore tedesco in un turbinare di tette e mutandine. Passa Lucia col passeggino e Matteo nel passeggino. Stanno andando via e non dice niente, si ferma solamente, si china su di me e mi dà due baci, uno per ogni guancia, e se ne va. E’ il suo modo per dirti che per quel che ha capito e per quel che la sua posizione le permette, lei dirà una preghierina per te prima di addormentarsi. Stasera cercherò di abbandonare il mio ateismo e cercare di credere a una preghierina di rinforzo che stasera io stesso dirò per me, stasera. Ci alziamo tutti, tranne Kiarina, che è sempre stata in piedi, non particolarmente presa dal selciato e dalla taranta e dalle nenie, come non è presa dagli stupefacenti kebab vegetariani di Zishan, dalle pite paradisiache del Babilonia, e va a farsi fare la pasta fresca a tre euro e cinquanta. Piccolo tesoro. Totò si siede accanto a me con una birra e la canna in costruzione. Dice:
-Se vince Guazza io me ne vado, si troverà un posto in Europa dove vivere zia pozzibbile.
-Io voglio restare a Bologna, Totò: Guazza non deve vincere, non è possibile. Io non voglio essere costretto a fuggire ancora e sempre.
L’amica di Totò, una delle tre, ha una borsa bellissima, nera con le palline gialle rosse e verdi a fare un disegnino.
-Ciao io sono Eleonora (?).
-Ciao, Jago- le tendo la mano.
-Come?
E’ carinissima, ha i denti un po’ sporgenti, il naso aquilino e gli occhi grandi grandi. Ma barcolla come alla ventesima vodka.
-Jago, ma va bene anche Jacopo.
-Guarda un po’ chi ho trovato qui- entra in scena il Marchese con un sorriso spiritato da mistico in estasi.
-Ciao- fa Alessia soddisfatta, poi guarda il Marchese, -Amo’, ci sediamo?
-Certo- fa il Marchese con la paglia che passa da una mano all’altra mentre guarda per terra tutto intorno a cercare scalini, e mentre Alessia lo guarda col sorriso largo a labbra serrate, e le palpebre basse basse. Io mi stendo sul selciato e dormo, non so quanto. Quando mi sveglio sono ancora tutti lì. Mi alzo con gli occhi a mezz’asta:
-Ragazzi io vado a nanna, che domattina c’è da stare svegli. Festeggerò tra quattro giorni, davanti al trono del Cinese.
Eleonora si volta e mi sorride. Le sorrido. Saluto Scudellari che marcia col suo zaino a forma di chitarra, legionario del cantautorato. Mi domando perché, perché mai nessuno quando sei stato tu a tendere una mano bagnata di lacrime, perché mai nessuno ti abbia preso, portato a casa, curato, scopato, dato da mangiare, accarezzato, portato a letto in braccio. Perché la gente ti ama solo quando sei forte, e fugge quando sei debole, come se non ti dovesse nulla, come se non ti avesse mai conosciuto, come se tu fossi il personaggio di un gioco, e nel gioco eri importante, poi il gioco finisce e ti ritrovi a guaire sul ciglio di un’autostrada, continuando a ripetere all’aria, che dal canto suo se ne frega, “amatevi come io ho amato voi”. Nessuno ha le palle. Io ho scelto. Non mi incazzerò. E’ solo che ho finito la comprensione. Qua non ci arrivo più: questo non lo capisci più, ti limiti ad andare a letto con un “eppure” in testa al posto di uno nel letto. Basta. Vado. Dritto come una testata coreana che accarezza la statua di Ugo Bassi e viaggia verso Piazza Maggiore, attraverso quell’immagine del deserto estivo che si annuncia, la Bologna che i Bolognesi vogliono solo per sé, ma e poi e poi sono i Bolognesi che se ne vanno. Il caldo affossante è arrivato tra ieri notte e stamattina, a ridurci allo stato orizzontale che assumiamo nell’estate, e questo è solo il piedino. Sono all’altezza della pizzeria di Gingio, frocione truccato da cantante lirico, che ti accarezza le curve con l’occhio da orso a caccia e ti alza il prezzo pizzetta in mano con la nonscialans di un tombarolo. E’ Eleonora quella che sta tentando di attraversare le catene che separano il marciapiede di via rizzoli dalla carreggiata, lo sguardo azzurro perso oltre il naso è l’unica cosa ferma della sua testa, una specie di àncora.
-Ei ciao.
Mi guarda assorta e dice:
-Ciao. Devo prendere da mangiare, poi prima devo fare un bancomat.
E ondeggia verso la banca più vicina. La vedo a dieci metri mentre prende a pugni uno schermo. Vado.
-Hai bisogno di una mano?
-Non fa.
-Vuoi una pizza? Due? Te le pago io.
Corre verso la pizzeria. Le vado dietro. Rovista nella borsa e dice:
-No, aspetta… No, aspetta ce li ho.
Me li mette in mano.
-Cosa vuoi?
-Due margherita.
Torno con due pezzi di margherita e quattro tovagliolini. Eleonora trangugia la pizza e intanto mi guarda, l’unica cosa che mi dice se sta sorridendo o no sono gli occhi. E ogni tanto lei sorride e ogni tanto è seria. Ha la faccia che cambia colore ed è sudata.
-Serataccia?
-Mmf- conferma lei con enfasi allargando gli occhi e facendo su e giù con la testa mentre mastica. Finisce la pizza.
-Ne vuoi un’altra?
Scuote la testa. Poi fa:
-Grazie mito.
-Vito è mio padre. Io sono Jago.
-Grazie- fa lei, -mmmito.
-Di nulla. Ci arrivi a casa? Vuoi che ti accompagni?
Scuote il capo. Sorride. Se ne va, e si volta a salutarmi da lontano.
Matteo stava steso a godersi il selciato tiepido della piazzetta. Forse gli mancano le braccia di Tina, chissà, ma non entriamo più nella testa dei bimbi oramai, come si fa, così lontani lontani come siamo, noi che calcoliamo i mesi e i secondi, e diciamo: tra pochi mesi io scenderò in via irnerio a prendermi un pezzo di pizza, ma via irnerio sarà deserta a est, e sarà deserta a ovest, e le serrande saranno tutte impietosamente, nettamente stirate, orizzontate anche loro ma sul verticale, e allora mi rassegnerò a cucinare l’ennesimo piatto di pasta, e quando rientrerò in via majorana non vedrò niente, niente e nessuno arrivare su una bici con il sorriso che vorrei avere io, non ci sarà quel sorriso che è l’unico bagno di calore buono di luglio. Ed è questo che io devo imparare da mesi e non imparo, che forse dovevo imparare prima, un anno fa. Che ci sono due modi di vivere: la sostituibilità, di se stessi e degli altri, e l’amore per la particolarità insostituibile, ciò che fa di quella persona quella persona, ciò che fa di quel sorriso quel sorriso, di quella pelle quella pelle, di quella voce quella voce, di quei pensieri quei pensieri. E io devo imparare a vivere nella prima. Come Zishan, che in Pakistan magari era di destra e a Bologna attende la venuta del Messiah Cinese. Come Sante, che è uscito di galera dopo venti e passa anni, è venuto a Bologna e ha messo su un locale davanti al quale un cretino non ha resistito alla tentazione del suo striscione da coglione. Come il Cinese che doveva mandare a cagare Daléma e lo abbiamo amato, che ha leccato il culo a Daléma e lo abbiamo odiato, che si è incoronato sindaco e speriamo che ci salvi una chiappa su due. Come i Bolognesi, che vogliono Bologna solo per loro e però lo voteranno e però se ne vanno via per sempre, lasciandoci qua con i prezzi sparati, gli affitti allargati, con i baristi che quando dici pago due caffè allargano la loro miglior puttana di sorriso e dicono in fretta vabbé facciamo due euro, e ti fanno sentire perso per sempre sul pianeta sbagliato, con un sole nucleare su via irnerio, il sole nucleare che ammazza l’amore e la lotta spaccandogli la testa sull’asfalto bollente, che scardina il collo dei concetti tra i sorrisi dei pusher e dei pitbull, e noi ipnotizzati dai gialli e dai rossi che nauseano i Bolognesi, noi sempre a piedi, con le scarpe da dieci euri della montagnola che il selciato di Santo Stefano te lo sposi come un gelato su uova di pietra, imbarazzati dai gay-bunker, dagli sbirri, dalle blatte che ti camminano sulla faccia mentre dormi, nelle sere d’estate dentro casa, fuori morte tra le bottiglie rotte per ferire, coi marocchini che ti fregano sul fumo e i ragazzi sgolati che ti chiedono hai qualche cents, fra’? e noi lì a sbavare per una moretti, a dire ai pakistani che ti chiedono quattro volte come va che va bene, va tutto bene, a farsi inculare dalla busa felliniana delle pizzette all’ombra delle torri, nei microonde delle stanze da studenti, dove attraverso le serrande abbassate si rincorrono i levari del dentro e del fuori, che rimbalzano sui muri dei palazzi come il fumo dei cilum, come peana di una rivolta che c’è tutti i giorni e non arriva mai, vomita ogni tanto davanti a televisori spenti, a gurdare fissi un’immagine che ha detto torniamo subito rimanete con noi e poi la tele ha fatto pluff, lasciando il riverbero di quell’immagine sullo schermo come il tracciante di un morto. Senza. Senza che la poesia sboccacciata del tuo sorriso sia là a salvarmi quando il mattino tenta di uccidermi con la prosa giuridica dell’afa. E imparare che i buchi neri sono buchi neri e non importa se ci si getta dentro un fiore o il proprio cuore, non ridaranno nulla in cambio in ogni caso, né lo avevan mai promesso. E imparare una buona volta ad accettare di essere una cosetta e ciononostante fare la voce grossa e dire davanti al nulla di chi pensavamo ci ascoltasse: questa cosetta si comporterà esattamente e comunque come aveva scelto di comportarsi. E scrivere tesi di laurea e scrivere racconti, e incontrare gente, e cercare di far funzionare il proprio cervello e quello degli altri, in qualunque modo, con qualunque mezzo, in qualunque misura, in questo caldo soffocante, in questa città di razzisti, in questo paese neofascista, e farlo mio dio anche senza l’amore se l’amore non c’è. Anche se l’amore non c’è tra quattro giorni potrò farmi una birra in pace, forse pagherò affitti più bassi, forse vivrò in una città sorridente, finalmente. Dobbiamo riaprire le valvole, riprenderci, e decidere che «noi semplicissimi e non graduati cittadini continueremo a lavorare, cercando con tutte le forze di impedire ai freak della politica di invadere anche la nostra intimità, di corrompere la nostra capacità di fare progetti, di sentirci legati agli altri». *

*Pier Vittorio Tondelli, 18 agosto 1991