Manufatti

Questa recensione è apparsa sul numero 7 di Satisfiction.

Wunderkind di D’Andrea G.L. fa molte cose e le fa bene: dà inizio a una trilogia dipingendo un mondo gotico e fantastico che ti si imprime nella mente, lasciandoti con la voglia di penetrarlo a fondo; di quel mondo ti fa letteralmente vedere le architetture, la terra, i cieli, i colori e persino il bianco e nero; ti fa sentire la pioggia che ti cola addosso, l’umidità che penetra le ossa; crea atmosfere dalla densità soffocante; descrive le paure e le angosce di un adolescente con la serietà e la considerazione riservate di consueto alle paure e alle angosce degli adulti senza trasformare l’adolescente in un adulto, ma anzi rivendicandone la specificità, lasciandolo libero di vivere il suo spleen che confina con l’orrore; solo che qui l’orrore irrompe nella realtà: l’autore lo prende sul serio, l’adolescente; stana l’essenza lugubre degli oggetti come solo gli incubi più disperati riescono a fare; radica l’incantesimo nella nostra forma di vita e, per ogni singola persona, in ciò che ha di più caro e intimo; concretizza fantasie oniriche terrificanti in immagini ad alta precisione; traduce in azioni e archetipi i sentimenti di amore coniugale, filiale, materno, talvolta li stressa; narra la violenza, e la fragilità nella violenza, con lingua eccellente.

Vorrei aggiungere un paio di cose, o forse tre, a quanto pubblicato su “Satisfiction” (a dire il vero vorrei aggiungerne di più ma in questi giorni il tempo è quello che è). La prima cosa è che: so che esistono letture politiche del romanzo. Io non sono in grado di darne una lettura politica articolata se non su un fatto: l’adolescente è qui vezzeggiato e rincorso da tutti, come una risorsa, e chi siano i ben intenzionati e chi siano i mal intenzionati questo ora qui non ci interessa né, nel romanzo, l’identificazione degli uni e degli altri è così netta da non lasciare margine a dubbi; e non lo è perché in entrambi i casi, magari mostrando maggior rispetto in un caso e mostrando maggior piaggeria nell’altro caso, in ogni caso l’adolescente è preso di peso, messo qua o messo là, protetto come un bambino e nello stesso tempo spersonalizzato come una fonte di valore, non come un soggetto di valore. Ecco, la mia lettura politica si limita a questo, e a notare, di sfuggita, che il valore di un adolescente è tale per chi lo mette di qua e di là, nella realtà, fino a che questo adolescente non è stato riempito, non è stato consolidato in una forma fatta di competenze e promesse di performanze. Nel caso in cui queste competenze e queste promesse di perfomanze saranno congeniali al mercato, il post-adolescente sarà ancora accettato (forse nello stesso modo di prima, forse in un modo diverso, anche questo sarebbe da investigare); nel caso in cui invece queste competenze e queste promesse di performanze saranno non congeniali al mercato, il post-adolescente sarà rigettato. Fine della lettura politica.
La seconda cosa è relativa all’immaginario di Wunderkind: la superficie esterna è la sedimentazione di un liquore proveniente da un irricostruibile coacervo di fonti – sedimentazione, coacervo, irricostruibile: un immaginario, appunto – mentre il nucleo è forgiato da un tentativo – riuscito in un modo che spaventa – di rendere visibili e palpabili archetipi onirici – sto parlando dei Manufatti – più vicini al disturbo del sonno che al sogno. Ecco: mentre leggevo Wunderkind e rivedevo decine di creature e di atmosfere che in un qualche modo percorrono la superficie della storia delle storie raccontate, da Shakespeare al più innocuo soft horror anni ottanta, mi domandavo donde venissero i Manufatti, che sono terribili, straniti, e toccano qualcosa di più profondo. Sì certo, è chiaro: anch’essi provengono da una sedimentazione, non può essere altrimenti; oggetti arrugginiti, probabilmente oggetti d’altro tempo che riemergono dai giardini e dai cortili nel secolo della cementificazione a tappeto, della sistemazione asettica, della pulizia edilizia. Simboli del rimosso, del preistorico rispetto-a-noi, della trasgressione antica, i Manufatti sono forse (forse) l’incarnazione generazionale di un eterno riemergente universale.
La terza, forse, cosa è relativa alla questione dell’immaginario, cioè degli immaginari, ed è parte di un discorso cui ho accennato alla presentazione di WebSite Horror a Firenze, per chi c’era, e che vorrei trovare il tempo di sviluppare anche qui, e che è, in breve, un discorso sull’imposizione dei propri immaginari senza una presa di distanza ironica da parte di una generazione che, per una disgraziata congiuntura storica, fatica a considerarsi ed essere considerata adulta, e nelle storie della quale la presa di distanza ironica rispetto al proprio immaginario ha spesso svolto il ruolo di uno scusarsi, è stata la voce di un babbo-da-bar introiettato che, da dentro l’autore, prende le distanze da tutte quelle cose-da-bambini che si stanno descrivendo.
Ora, l’adolescenza è, temo, quel periodo in cui si passa dalla prima adolescenza alla tarda adolescenza, e ho il sospetto che il transito avvenga quando ci si assume la responsabilità di quello che si dice, in un processo che – da un lato – conquista il discorso veritiero e rigetta il discorrere fantastico spinto dal timore della vergogna che proviene dall’essere còlti in contraddizione (Socrate insegna) e – dall’altro lato – dà valore alla coerenza perché ad essa danno valore i nostri coetanei che crescono intorno a noi, e che tendono a individuare nel discorso coerente rispetto alla realtà la caratteristica peculiare e la condizione necessaria dell’età adulta. L’adolescenza è il processo attraverso il quale, insomma, viene rigettato il discorso fantastico, ed è forse per questo che è il periodo in cui l’orrore sembra più affascinare: rientra da ogni foro, artiglia dal buio, fa resistenza, fa paura.
Wunderkind fa due cose diverse e collegate: afferma con forza un immaginario e prende sul serio l’adolescente. Quindi l’imposizione dell’immaginario del terrore è non solo il frutto (o la voglia) di una scelta estetica, ma anche un tema: l’immaginario del terrore viene imposto, ed è rappresentato un adolescente che vede quello che nessuno vede. Nel romanzo, le paure dell’adoloscente – l’autore fa una scelta – si dimostrano più reali del reale, più reali del senso comune degli adulti. Dunque Wunderkind non solo fa una cosa, e cioè impone un immaginario, ma mentre lo fa, parlando dell’adolescente, dice che lo sta facendo.

Indicazioni di ricerca: ammissione della differenza tra i due ambiti: da un lato il patto di sospensione dell’incredulità richiesto dalla narrativa e dall’altro lato il patto di coerenza richiesto dalla realtà adulta extranarrativa; possibilità della narrativa, d’altro canto, che è possibilità di forza politica e sociale, di dire cose sul mondo più vere di quelle dette dal senso comune laddove il senso comune è incancrenito e dunque in ritardo rispetto alla realtà, d’ostacolo alla comprensione dei fenomeni e al riconoscimento della reale divisione del continuum; degradi pop e crescite zero; possibile contraddizione: pretendere il riconoscimento della maturità mediante l’affermazione forte di qualcosa che (forse) rivendica il diritto a un carattere non adulto.