Un filo sottile e adamantino lega ogni male nel Male

Qui sopra la copertina del volume scritto – vi si trovano capitoli lunghi quattro pagine sulle quali, infatti, sono distribuite financo venti righe di parole, in lettere di grosso formato – e firmato da Omar Fantini. Potete trovarlo sul banco della libreria, accanto alle agendine, ai libri di aforismi, alle crestomazie delle imprescindibili opinioni di comici, calciatori e ospiti fissi di talk-show sul mondo in cui viviamo e sulla vita in generale.
L’assenza, in copertina, del volto dell’autore impietrito nella smorfia demente di occhi e bocca a uovo, con una mano di taglio alla nuca che mimi il configgersi degli anni ’80 nella coppa del trentenne o, più tradizionalmente, semichiusa a becco sul cucuzzo, nell’antico segno della scimmia citrulla, testimonia chi e cosa la storia ritenga tuttora, e si spera per molto altro tempo ancora, più importante. Ma anche indica quanto possa il subdolo nostalgismo.

Cosa fa Omar Fantini (parte quarta)

Una domanda è emersa più volte, tra i commenti ai post di questa serie e le email ad essi relative che ho ricevuto: ma non si starà attribuendo un’intenzionalità che forse non c’è? Avevo già scritto nel primo post: no. Non si sta attribuendo un’intenzionalità, né la si sta escludendo. In entrambi i casi un tipo antropologico è in azione: non è necessario che l’agente abbia un disegno, il disegno è già dato nella pulsione a distruggere determinate realtà, a magnificarne altre. In entrambi i casi il risultato è che Colorado Cafè, come dice il mio amico Daniele, è il braccio armato del Bagaglino. Quello che Colorado Cafè fa, lo fa. Il che non dimostra che quello che fa abbia una parte fondamentale in un qualche disegno di soggiogamento di massa, può anche esserne un epifenomeno, la qual cosa non sarebbe comunque meno rivelatoria della cultura e delle condizioni psicologiche dominanti Ma visto che ci sono, faccio un’altra immaginazione. Qual è lo strumento di formazione, informazione e persuasione più importante della realtà italiana? Mi sembra ovvio che sia la televisione. Qual è stato il prodotto televisivo di più grande successo nella fascia ragazzi dalla fine degli anni ’70? Gli anime. La corsa agli anime da parte di ogni rete televisiva italiana lo dimostra a sufficienza. Dunque gli anime sono stati lo strumento di formazione, informazione e persuasione più importante di chi oggi ha su per giù tra i trenta e i quarant’anni. Questa è quella che mi pare una premessa vera.

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Cosa fa Omar Fantini (parte terza)

Per questo motivo la poesia è più filosofica e più seria della storia, perché la poesia si occupa piuttosto dell’universale, mentre la storia racconta i particolari.
Aristotele, Poetica

Naturalmente è cosa sana attribuire valore di verità a una descrizione scientifica – e quindi consensuale – della realtà e attribuire un minor valore di verità alle più eterogenee immaginazioni. Questo di per sé, tuttavia, non significa negare il valore dell’immaginazione, della metafora, dell’opera d’invenzione. Nel momento in cui invece mi si dice che una cosa è stupida (anzi: è da stupidi) nella misura in cui non è una descrizione scientifica della realtà, si fa proprio questo: si nega valore di verità e valore in generale a ciò che non ha valore di verità strettamente scientifica, si attribuisce all’immaginazione, alla metafora, all’opera d’invenzione un disvalore.
Qui non si tratta, è chiaro, di non saper decodificare i registri, di attendersi da Holly e Benji una partita che duri novanta minuti e un campo regolamentare, di rimanere disorientati e increduli. Qui si tratta, meramente, di delegittimare quell’immaginazione che va al di là del verosimile. I Gem Boy fanno questo: trascinano il fantastico sul terreno della realtà e dicono “Ma mica è vero”. Anche Omar Fantini fa questo quando parla di Holly e Benji.

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Cosa fa Omar Fantini (parte seconda)

Sui limiti generati da una cultura pop totalitaria si può e si deve discutere, e in merito a ciò rimando allo splendido L’assedio del presente di Claudio Giunta. Tuttavia la serialità ha prodotto opere notevoli. Per la maggior parte dei rappresentanti della mia generazione Goldrake è il più bel cartone di robottoni di tutti i tempi e Ken il guerriero è il più bel cartone di bastonate di tutti i tempi, ma solo per pochi, forse pochissimi, la saga di Mazinga (della quale Grendizer è capitolo) rappresenta una delle pietre miliari della contestazione del vecchio Giappone militarista da parte dei giovani disegnatori giapponesi attivi negli anni ’70, contestazione che metteva in gioco concetti come l’ecologia e in generale il rapporto con il pianeta e con gli altri popoli del pianeta, la bellezza e la tragedia della relazione uomo-macchina, la lunga elaborazione del lutto atomico, il dubbio su come comportarsi davanti alle manifestazioni del male, il diritto di proprietà sulla terra, il problema dell’ideologia, dell’inibizione del sentire, del fascismo. Solo per pochi Hokuto no Ken è un’opera sul sacrificio, sul fato e sulla capacità di affidarsi alla sua corrente, su come si genera la cattiveria umana, su cosa sia davvero un messia e cosa ci si aspetta che faccia e cosa invece fa davvero, su quella terza possibilità, che sta tra il non agire e l’agire lasciando che l’abitudine anestetizzi, e che consiste nell’agire continuando a sentire, su cosa manchi a un dominatore per essere la creatura più evoluta del mondo e sul fatto che ciò che manca è la rinuncia a essere un dominatore.

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Cosa fa Omar Fantini (parte prima)

“Come sono i tuoi coinquilini?”
“Boh… Tranquilli… Non so.”
“Di qualcosa parlerete!”
“Perché, noi di cosa parliamo? Iacopo, ti ricordi quando il Mella disse ‘certo, noi non si parla mai di nulla di serio, ma almeno neanche di calcio, marche o vestiti‘?”
“Magari aveva ragione, ma è diverso: tra noi è vero che non si parla granché dei cazzi nostri, delle cose importanti, però con le altre persone ci abbiamo sempre parlato. Mica siamo autistici. Via, di qualcosa parlerete!”
“Di cartoni animati.”
“Sono appassionati di anime?”
“No, no, non di quelli di ora… Parliamo di quelli vecchi, tipo Kenshiro, Yattaman, Georgie, Lamù, Fantaman, Arale, Paul & Mina…”
“Eh, vabbè, è come dire ‘ci parlo del tempo’… I vecchi cartoni animati giapponesi sono l’unica cultura condivisa della nostra generazione. […]”

Vanni Santoni, Gli interessi in comune

[Una volta in questo punto del post c’era un video ripreso da Colorado, una trasmissione Mediaset. Il video è stato poi cancellato da YouTube. Il protagonista era Omar Fantini, un comico il cui spettacolo consisteva sostanzialmente nel dire quanto sia fottuto nel cervello chi è cresciuto negli anni Ottanta, e questo a causa dei programmi tv cui si è sottoposto, programmi idioti la cui idiozia Fantini dimostrava con riferimenti stucchevoli alla polvere di Pollon e – immancabilmente – alla sessualità di Lady Oscar. Da qui in poi, questo post proseguirà come nella versione originale]

Il numero di atrocità interconnesse di cui si è reso responsabile Fantini può essere ragionevolmente considerato ostensione del filo sottile e adamantino che lega ogni male nel Male. Ciò che invece non è chiaro mai alle menti che non siano pregiudizialmente cospirazioniste o scettiche, ma che sono in ogni caso vittime d’overdose di rumore informativo, è se il singolo fenomeno sia il risultato di un disegno ordito da dominatori occulti o di un involontario stato generale dello spirito o di entrambi, e in caso secondo quale misura, suddiviso in quali parti e responsabilità, e se sono parti interne o parti esterne al fenomeno di volta in volta preso in esame, in questo caso, l’operare del singolo individuo. Se si tratti di trama o di riflesso è un dubbio che ormai, per chi vive in Italia, ricopre il ruolo che hanno  le domande tipo, in metafisica, se sia fondativa la materia o l’idealità o, in tema morale, se viga un rigido determinismo o il libero arbitrio. Domande fondamentali delle quali la risposta appare nondimeno imperscrutabile: noi, di fatto, oggi, sappiamo cosa fa Omar Fantini, ma non sappiamo chi è Omar Fantini, il che non gli risparmia un’analisi. Limitiamoci dunque a vedere cosa fa Omar Fantini:

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Allo appetito delli uomini particulari

Federica Sgaggio ha scritto qui del servizio di Mattino 5 sul giudice Raimondo Mesiano; ha sgombrato il campo da una serie di etichette e interpretazioni fuorvianti che si erano appiccicate al caso e, così facendo, ha aperto uno spazio di chiarezza per la riflessione. Ne approfitto: oltre all’intimidazione di cui scrive Federica, mi pare che il servizio mostri qualcos’altro. Non qualcosa di nuovo in senso stretto, perché è qualcosa di coerente con un’ideologia già veduta, e già scontata, e già invisibile. Non sono nemmeno sicuro che si possa parlare di intento: è difficile stabilire se vi sia intenzione o sintomo, coscienza o incoscienza, ma in quel servizio non riesco a non vedere all’opera il tentativo di ridurre un ordine logico, ovvero un ordine universale – la legge -, all’individuo. E, necessariamente, il tentativo di ridurre un ordine universale equivale al tentativo di annientarlo.
Il servizio riduce la legge a un uomo in particolare, riduce la matematica a corpo, vizi, abitudini, colore dei calzetti. E mi pare che qui ci sia pure, implicita, un’identificazione tra persona umana e desiderio, quindi: riduzione della legge alla persona e riduzione della persona alle sue motivazioni personali. E dunque: riduzione della legge a motivazioni personali. Sei giudice, ma sei uomo, dunque chi sei tu per giudicare? La legge, sì, ma la legge non esiste, non c’è l’universale, non c’è l’ordine logico. E, dove non c’è ordine logico, non ci sono ragioni, e allora il più grosso non si deve toccare, lui è là e basta, e tu no. Sei invidioso?

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Fèmili déi

[…] non bisogna stupirsi, né sospettare la malafede, quando le esortazioni alle virtù tradizionali della religione, della patria e della famiglia provengono da quelle stesse agenzie educative che presentano abitualmente quelle virtù come l’ultimo rifugio dei perdenti. A dare il massimo risalto al Family Day (un’iniziativa che porta nel suo stesso titolo il segno della resa alla logica della società dello spettacolo) sono stati i telegiornali delle reti Mediaset: cioè precisamente quell’apparato mediatico che attraverso i suoi specifici ‘valori’ – l’edonismo, il delirio consumistico, l’irresponsabilità nei confronti dei propri simili, l’irreligiosità – ha portato contro la famiglia un attacco infinitamente più violento di quelli che con le deboli armi della filosofia erano stati portati dai libertini o da Engels (prova ne è il fatto che la crisi della famiglia non comincia affatto nel Settecento o mezzo secolo fa, quando anche i comunisti si sposavano, battezzavano i figli e si conformavano a una morale puritana, e ipocrita, non molto diversa da quella dei cattolici, ma appunto nell’età del bombardamento mediatico, che insegna a trattare ogni valore, ogni virtù non indirizzata all’utile – e la dedizione per la famiglia è ovviamente una di queste virtù – come uno spreco di tempo). Chiunque abbia il fegato di vedere una puntata di programmi come Buona domenica (Canale 5) o La vita in diretta (Rai Uno) non ha bisogno d’altro per capire chi sono i responsabili della distruzione dei valori morali che stanno alla base della famiglia come degli altri istituti in cui si è organizzata sinora la vita civile: chi cioè ha, oltre che la forza, l’interesse a perpetrare questa distruzione. E tuttavia sarebbe sbagliato pensare che questa contraddizione tra le parole e i fatti venga consciamente, ipocritamente mascherata da coloro che hanno interesse a mantenere in vita sia la famiglia sia il sistema mediatico che la tiene in assedio. Si capisce soltanto ciò che si è preparati a capire, dunque non quelle verità che minacciano di dimostrare delirante un intero modo di vita (o, che è lo stesso, un intero modo di produzione). Risolvere o anche solo vedere questa contraddizione significherebbe criticare la vita moderna alla radice, cioè – per chi ha il potere e il denaro – perdere potere e denaro. La falsa coscienza, che è sempre una coscienza candida, scongiura questo redde rationem.

Claudio Giunta, L’assedio del presente

Il blog di Claudio Giunta

Il dubbio atroce dell'anarchico

Mi sono capitati per le mani due libri appena usciti: due romanzi, di due autori nuovi per due case editrici diverse. Di un autore la casa editrice pubblica la foto in terza di copertina. E la pubblica anche a pagina 4: tutta pagina 4. Autore carino, aria scazzata, vagamente persa. Leggi le note autobiografiche e scopri che ha trent’anni ed è musicista. Leggi il romanzo e trovi frasi come “allora gli accadde la cosa più assurda di tutta la sua vita”.
L’altro romanzo, consigliatomi da più parti, è di uno sceneggiatore televisivo di affermato successo, ed è pubblicato da una casa editrice che si occupa di cinema e di corsi di scrittura. Una casa editrice trasversale. Il risultato è il romanzo che ho in mano: una lingua non irragionevole ma appiattita su una forma da script, punteggiatura completamente sballata e – orrore – un recidivo doppio punto esclamativo.

Vai in libreria, butti un occhio sul banco delle novità e quando prendi in mano qualcosa hai paura di leggere la biografia: copywriter quando va bene; impiegati mediaset, musicisti, scultori quando va male. Bene o male, si pensa a lettori ai quali di leggere un romanzo non è mai fregato nulla. Tanto tutto – musica, direzione artistica, narrativa, poesia, teatro – è la stessa cosa: così ho letto sul sito di un tuttofare, un grumo di accenti assenti e discordanze di genere tenuto insieme dagli elastici dell’ideologia.

Il venir meno della forma letteraria nell’inseguimento della forma estranea, spesso televisiva – o anzi nella riproposizione della forma estranea, spesso televisiva, dato che vien da pensare che l’autore produca ciò che rumina –, non è argomento inedito. Inedita forse è la quantità di materiale riversato sul mercato editoriale in questo momento, e quindi la quantità di danaro che le case editrici decidono di investire in testi non-proprio-letterari (a.k.a. quantità di danaro che decidono di non investire in testi proprio-letterari).

Il dubbio atroce dell’anarchico rimane sempre quello: il prezzo della libertà è un livellamento verso il basso? è la fine della critica e della mediazione?

 

Post scriptum
Penso al prossimo vudéi del signor Grillo e alla proposta di abolire i fondi statali alla stampa – anche se quelle di Grillo non hanno quasi mai l’aspetto di proposte, bensì di mattanze al machete. Penso al pubblico di italia uno che decreta la sopravvivenza di qualcuno e la scomparsa di qualcun altro, ma senza che gli vengano forniti gli strumenti per abbracciare un orizzonte più vasto. Penso che poi in fondo è giusto. Davvero. Solo che fa schifo.

Che due palle, Orazio

Spesso chi crede che la filosofia sia quella che insegnano pessimi professori di liceo abbandona ogni confronto dialettico di un certo spessore con la ritrita citazione “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante la tua filosofia ne possa sognare”. Fermo restando che 1. Shakespeare andrebbe anche letto oltre che citato; 2. della filosofia di Orazio risponde Orazio, e non l’interlocutore di turno; 3. un buon modo per distruggere scrittori anche interessanti come Shakespeare Wilde o Nietzsche è continuare a fare delle loro frasi slogan che alimentano la noia e infine la nausea; andrebbe spiegato di volta in volta al ripetitore d’aforismi – giusto per non rendersi complici della stagnazione – che il problema della filosofia non si pone tanto quando in cielo e in terra ci sono più cose che nella filosofia – eventualità serenamente considerata dal filosofare sui limiti della filosofia – bensì quando in cielo e in terra ci sono meno cose che nella filosofia. Il problema di avere nel mondo più cose di quante il proprio schemino ne consideri è un problema dell’ideologia, che ripudia la filosofia allorché questa potrebbe dimostrare che, appunto, ci sono più domande di quante l’ideologia ne possa tollerare.

Pensare a voce troppo alta

Il pensiero più innovativo si fa strada nelle scuole? È circondato da un clima di riconoscimento generale? Raggiunge l’orecchio interno, anche se il processo uditivo è spesso ostinatamente lento e carico di volgarizzazione? O invece il pensiero autentico e la sua valutazione ricettiva sono impediti, perfino distrutti (Socrate nella città dell’uomo, la teoria dell’evoluzione tra i fondamentalisti), da un rifiuto a pensare di stampo politico, dogmatico e ideologico? Quale meccanismo sordido, ma comprensibile, di panico atavico, di invidia subconscia alimenta la «rivolta delle masse» e, oggi, la brutalità filistea dei media che hanno reso derisoria la stessa denominazione di «intellettuale»? La verità, insegnava il Baal-Shem Tov, è in esilio perpetuo. Forse deve esserlo. Laddove diventa troppo visibile, dove non può rifugiarsi dietro la specializzazione e la crittografia ermetica, la passione intellettuale e le sue manifestazioni provocano odio e derisione (questi impulsi si intrecciano con la storia dell’antisemitismo; gli ebrei hanno sempre pensato a voce troppo alta).

George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero