Luca Ricci, La persecuzione del rigorista

Luca Ricci, La persecuzione del rigorista, Einaudi

Il giovane sacerdote di buona famiglia e salde ambizioni, inviato a trascorrere un breve periodo in un paese di montagna, è quanto di più lontano si possa immaginare dallo stereotipo del prete: uomo di mondo in ogni senso, completamente privo di dimensione spirituale, incarna una sorta di nobiltà decadente che si esprime nell’esercizio, sovente fine a se stesso, della capacità di imporsi, di negoziare, di esercitare pressioni ai limiti dell’estorsione; attorno a lui gli esponenti dell’altra parte dell’umanità partecipano all’azione nel ruolo di consapevoli pedine, cercando di guadagnarci ognuno il suo misero tornaconto. Del resto, questa è l’unica differenza sostanziale tra due forme di vita che si legittimano vicendevolmente, un dislivello minuscolo, tutto sommato, tra persone che sono tutte ugualmente colpevoli, in un mondo dove l’unica pietas sembra consistere nel riconoscere al prossimo – prete o contadino, donna o uomo che sia – il diritto a inseguire la sua personale meschinità, oltre la quale pare non esserci nulla che valga la pena di essere ricercato. Ciò che più sconforta e disorienta in questo libro è che non si nega la possibilità e il valore dell’innocenza, del bene, di un atto disinteressato, perché non ve n’è alcun bisogno: sono cose al di là dell’orizzonte e delle aspettative di chiunque, caso mai è la loro esistenza a dover essere dimostrata in un mondo dove la bassezza è il fondamento sostanziale di ogni elemento. Il protagonista è il signore di questa realtà: il suo mestiere sembra esser stato scelto perché un abito bisognerà pure indossarlo, la sua qualità è essere più bravo degli altri nello strappare risultati, il suo piacere è costringere il prossimo all’obbedienza, dedicarsi a una passione fredda, “il gusto d’incedere impettiti”; persino Dio, nella sua immaginazione, è solo l’ennesimo vecchio, non diverso da quelli che affollano le chiese, da sopportare con fastidio per ottenere qualcosa. Il suo unico motivo di frustrazione, la più temibile contestazione al suo mondo, è il contadino che non sa giocare a calcio, in nessun ruolo, e che tuttavia, sferrando dozzinali rigori rasoterra, segna sistematicamente; una grazia portata senza coscienza, un talento del tutto inutile, irragionevole, una manifestazione di gratuità che insopportabilmente pretende di esistere.

Questa recensione comparve sull’Indice del maggio 2008, ma non fu mai pubblicata su New-Clear Wordz.