Le scuole teobaldiane – parte seconda

I calicantiani

Cézanne, Case sul bordo di una strada

Qui la prima parte di “Le scuole teobaldiane”

Non mi è particolarmente difficile incontrare l’esponente più autorevole dei calicantiani, Marta da Castelfidardo (intendendosi con Castelfidardo la via principale del Ghetto di Pesaro), dato che frequentiamo la stessa mente e abbiamo, grazie al cielo, gli stessi orari. Chiedo a Marta di parlarmi un poco della distanza che separa i calicantiani dai neoteobaldici.

– Siderale distanza, sicuramente. Non abbiamo mai capito certi tipi psicologici e le loro manie, troviamo angusti i loro immaginari; crediamo di guardare le cose con il giusto metro; non riteniamo corretto divinizzare un autore, non lo riteniamo corretto dal punto di vista dello studio né dal punto di vista morale: rispetto al primo, si rischia di non comprendere la sua costante ricerca, di ridurre la sua opera a una monumentale esposizione di un sistema fatto e finito; insomma, pensi a cosa si è fatto con Platone, come ha giustamente osservato Mario Vegetti. E poi, come dicevo, la divinizzazione dei grandi è scorretta anche sul piano morale: se escludi dal genere umano chi è capace di grandi cose, di fatto sminuisci il genere umano.

 

Quindi voi pensate che i neoteobaldici divinizzino Paolo Teobaldi.

– Per loro Paolo Teobaldi è il medium di una rivelazione. Hanno eletto Finte, anzi, una frase di Finte, a verità definitiva, e, dato che Teobaldi vivrebbe in una sorta di eternità atemporale, al suo pensiero è negata un’evoluzione, l’idea stessa di una ricerca, e Teobaldi non può entrare in contraddizione con la sfiducia nel mondo espressa dall’autore implicito di Finte, quindi, per loro ogni altro libro di Teobaldi, in quanto si confronta con il mondo, descrive una consapevolezza inevitabilmente inferiore. Non solo chi ha enunciato la suprema verità espressa in Finte, cioè Teobaldi, non può avere dubbi o ripensamenti, ma costoro non concepiscono nemmeno una differenza tra l’autore e il narratore, o tra il narratore e il protagonista: quando cominci a sacralizzare le cose e le persone, come fanno i neoteobaldici, ogni forma di distanza, compreso il buon senso, finisce per assomigliare a un tradimento.

Quindi lei pensa a un percorso di ricerca, più che a un sistema teobaldiano.

Ogni romanzo teobaldiano esprime la visione di un intero mondo, e, presi nel loro insieme, essi sembrano delineare un percorso, sì, come delle prove, come uno spostamento del punto di vista. Perché non pensare, ad esempio, che Il padre dei nomi sia realmente una ricerca su come è fatto il mondo? Non è possibile pensare, come fanno alcuni e del tutto legittimamente, che sia il linguaggio a dare forma e significato alle cose? Perché Il padre dei nomi dovrebbe per forza descrivere un livello inferiore, e non invece una possibilità? Roba da matti.

Lei pensa che sia il linguaggio a dare forma al mondo?

– Io no, ma accetto la possibilità che sia così e che sia legittima una ricerca in tal senso, o che un romanzo proponga una suggestione in direzione di questa prospettiva.

Per l’appunto, voi accettate le cose, e sostenete che questo è il punto di vista espresso ne La discarica: l’accettazione del mondo, compresa la ricerca. Ma così voi non fate con La discarica ciò che i neoteobaldici fanno con Finte?

– Ma assolutamente no. Noi non leggiamo tutta l’opera di Teobaldi alla luce de La discarica: noi riconosciamo autonomia alle altre opere – anche a Finte, che esprime un punto di vista vicino allo gnosticismo. Semplicemente ci ritroviamo nella visione del mondo espressa ne La discarica. Tuttavia non riconduciamo ogni visione del mondo a un fraintendimento della visione del mondo nella quale ci riconosciamo.

Qual è la forza de La discarica?

La discarica è un libro dove la roba, proprio il ciaffo, riacquista importanza, perché il centro di gravità che sta al di là del mondo viene abbandonato in favore del mondo, e i rifiuti, come parti del mondo, acquistano valore, dignità: tutti gli uomini e i loro fatti hanno dignità, tutti gli oggetti vengono nominati perché ognuno di essi ha dignità.

Mi scusi, ma dove sta “il centro di gravità che sta al di là del mondo”?

– È Lia, la donna. La donna nel romanzo pesarese – come lei ha ricordato nella prima parte, “Lia” in pesarese sta per “Lei” – è l’origine, la pienezza, la completezza da cui si viene strappati. Vi sono poi, nel romanzo pesarese, protagonisti che a lei si ricongiungono, vi sono protagonisti che continuano a vagare nella perdizione, e vi sono protagonisti che, come Tizio de La discarica, vagano, sì, ma non nella perdizione; anzi, Tizio trova un posto nel mondo e ribalta la prospettiva: il mondo vero diventa quello sul quale è atterrato; l’altro, quello di prima, il mondo nel quale era unito a Lia, perde la sua verità e la sua consistenza: assieme al degradare del rapporto tra Tizio e Lia, degrada anche la verità e la giustezza del mondo che ospitava quel rapporto, e tutto a vantaggio di un mondo nuovo, di nuovi rapporti, più sociali, più aperti, probabilmente più sani, meno intimi e ritirati.

In La discarica, Teobaldi istituisce spesso collegamenti tra parole che hanno un qualche tipo di assonanza ma diverso significato e diversa radice: questi collegamenti sono gli antenati del cosmico gioco di parole de Il padre dei nomi?

– Guarda, il gioco di parole è normale, anche al di fuori de Il padre dei nomi. Chiaro che Teobaldi non crede che due termini simili ma di radice diversa, o anche sparentati da molto, conservino alcun legame al di là di quello che il linguaggio attribuisce loro, questo è pacifico quanto lo stesso Teobaldi. Ma un legame c’è proprio nel momento in cui l’autore lo istituisce: con questa strategia Teobaldi costruisce una nuova mnemotecnica, che è il suo modo di fare critica e minare il sistema al livello del linguaggio: dopo aver letto la connessione che lui ha istituito tra due parole, pensandone o ascoltandone una ti verrà in mente anche l’altra, e questa è un’arma potente.

Grazie mille, un’ultima domanda: può parlarmi del vostro nome? Perché “calicantiani”?

– Il calicanto è il fiore di Lia, il profumo del calicanto è il suo profumo, è il profumo che fa innamorare il giovane Tizio, ed è il profumo che Tizio sente di nuovo al termine del romanzo; ma proprio quando questo profumo sembra indissolubilmente legato a Lia e al passato, a quel mondo scomparso, ecco che da Lia e da quel mondo il profumo si separa: come Tizio, il profumo del calicanto si rende autonomo, come Tizio, accetta il divenire. Il calicanto rappresenta dunque la bellezza della temporaneità, della caducità: è la costante, perché la costante del divenire è il divenire, è il bello del mondo. Diglielo, ai neoteobaldici.