L’altro me (parte quarta)

Pubblico, in una serie di post, l’intervento al ;Pesaro Comics & Games 2014.
(La prima parte, la seconda e la terza)

L’altro me – l’avversario nell’animazione robotica classica

Il Grande Mazinga (Toei, 1974)
Il Grande Mazinga (Toei, 1974)

Troppo umani. Torniamo dunque alla Mazinsaga. Quando il livello della guerra si alza, cioè quando Hell è sconfitto e i Micenei deviati riaffiorano dalla terra, Mazinga Z non è più competitivo: è il momento del potente Grande Mazinga, che rispetto allo Z ha i tratti demoniaci accentuati: spigoloso, puntuto, ha le spade, ha il fulmine. Anche la greca Afrodite è sostituita dalla sua versione romana: Venus.

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L’altro me (parte terza)

Pubblico, in una serie di post, l’intervento al Pesaro Comics & Games 2014.
(prima parte, seconda parte).

L’altro me – l’avversario nell’animazione robotica classica

Mazinga Z (Toei, 1972)
Mazinga Z (Toei, 1972)

Prospettive della dimensione politica. Prendiamo Mazinga Z (1972). Il nemico ha connotazioni occidentali ed è un nemico contro il quale si schiera un robot fatto di Japanium: il punto di vista qui è nippocentrico. Il Doctor Hell, il nemico di Mazinga Z, è uno scienziato tedesco, che è stato nazista, così come il suo sottoposto Conte Blocken. Nella sua guerra per la conquista del mondo, Hell si serve di mostri meccanici costruiti secondo l’antica tecnologia di Micene, e intende impossessarsi del Japanium per integrarlo nella loro costruzione e renderli invincibili. Al contrario Mazinga Z è un robot costruito a scopo di difesa, perché la tecnologia può essere dio o demone, e la differenza morale qui la fa lo spirito giapponese, cioè il pilota come umanità, testa, ghiandola pineale del robot; su questa linea evolutiva, in Mazinkaiser (2001) Koji dovrà prima di tutto limitare, controllare il robot, e solo allora pilotarlo.

Il dominio della tecnica. In generale – non sempre – non ci troviamo tanto di fronte alla tesi di una natura neutrale della tecnica, il cui risultato dipenderebbe in toto dall’uso che se ne fa: piuttosto l’anime mecha sembra spesso lasciar intendere che la tecnica abbandonata a se stessa tende a prendere il sopravvento, e che l’eroe domina la tecnica nella misura in cui il suo cuore e la sua coscienza sono forti, mentre l’avversario appare anche visivamente dominato dalla tecnica.

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L’altro me (parte seconda)

Pubblico, in una serie di post, l’intervento al Pesaro Comics & Games 2014:
qui la prima parte.

L’altro me – l’avversario nell’animazione robotica classica

Bryking (Kyashan – Tatsunoko, 1973)

La dimensione storico-politica e la dimensione psico-mitica. Vi sono due distinte dimensioni simboliche in azione nel filone dell’animazione robotica degli anni Settanta, e si riverberano l’una sull’altra: una dimensione simbolica sociale, collettiva, storica e politica legata all’immaginario e al significato della Seconda guerra mondiale; e una dimensione simbolica che riguarda la vita mentale, affettiva, personale dell’eroe, il suo conflitto interiore e quello che ho chiamato l’universo psico-mitico o psico-teologico.

La dimensione politica. Prenderò in considerazione prima la dimensione storico-politica: è quella più difficile da snodare, ma cercherò di essere breve perché è anche il piano su cui si è scritto di più, mi pare, e rimando ai lavori di Fabio Bartoli e Marco Pellitteri – ai quali questa serie di post deve moltissimo e sotto molti aspetti; ho altresì un grande debito nei confronti di Marcello Ghilardi, di Gianluca Di Fratta, e della redazione di Anime Asteroid.

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L’altro me (parte prima)

Pubblico, in una serie di post, l’intervento al Pesaro Comics & Games 2014:

L’altro me – l’avversario nell’animazione robotica classica

Gandal e Lady Gandal (Grendizer – Toei, 1975)
Lady Gandal e Gandal (Grendizer – Toei, 1975)

Una suggestione. È ciò che propongo. Avverto fin d’ora che sì, la mia aspirazione è descrivere la realtà, e tuttavia mi rendo conto che rischio di trasformarla, e non me ne faccio un grosso problema. Queste sono le considerazioni di una persona che si occupa di narrazioni, non di un esperto di anime, di un traduttore o di un filologo. Sicuramente i più competenti mi sgameranno fare qualche errore orrendo; nel qual caso sarò contento perché non si annoieranno, e sarò contento anche se questa serie di post dovesse essere d’ispirazione a qualche esperto.

Un campo. La suggestione che propongo riguarda gli anime robotici usciti fra il 1972 e il 1980, in particolare quelli di Go Nagai, di Yoshiyuki Tomino e della squadra composta dal regista Tadao Nagahama e lo staff Saburo Yatsude. E non tutti ma solo i super robot, cioè i robot che ricoprono un ruolo divino, mitologico – aspetto qui molto rilevante – come Grendizer/Goldrake, lasciando fuori i real robot, cioè le armi da guerra, come Gundam.

Avanzerò a cerchi concentrici perché ogni evoluzione rielabora organicamente le precedenti e si fa carico di qualcosa che nelle precedenti non era nominato direttamente e però era presente.

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Un paio di appunti sui reading

Un tempo ero molto concentrato sulle presentazioni di libri. Ultimamente mi è capitato di fare tre reading nel giro di poco tempo, e così ho capito che i reading mi piacciono tantissimo, e ho anche capito perché prima li considerassi esibizioni autoreferenziali, inutili e forse dannose, imbarazzanti per l’autore e per il pubblico, e perché invece adesso mi piacciano tantissimo.

1. Il reading è una cosa bellissima quando si raccontano storie, mentre funziona meno, salvo rare eccezioni, quando si leggono estratti, pagine prese dal romanzo a cui si sta lavorando o da quello appena uscito, perché questo significa, spesso, non raccontare una storia, quanto fornire un saggio della propria scrittura; ed era per questo che trovavo i reading autoreferenziali: perché il mio concetto di reading era tarato su questa sua possibile forma, e non su quell’altra, quella del reading vissuto come un raccontarsi storie, che invece sto piacevolmente sperimentando con Gabbiani a stella, la cui formula, che per ora sembra funzionare, prevede sei racconti autoconclusivi, a scaletta mitemente variabile, per la durata di un’ora circa; tra le variazioni è contemplato l’inserimento di un pezzo non mio (a Cagli ho letto la Clitemnestra di Isabel Farah). Insomma: meno autorialità e più storie.

2. Riflettendoci in maniera – lo confesso – ancora piuttosto embrionale, il mio ideale è fatto grosso modo di narrazioni che viaggino gratuitamente o quasi su supporti elettronici, e di narratori che possano farsi pagare per viaggiare e raccontare storie. Questo sembrerebbe in contraddizione con l’idea espressa dal programma ‘meno autorialità e più storie’, perché il pericolo della performance e, di conseguenza, del personaggio-narratore che diventa più importante del testo, è dietro l’angolo, e infatti era adottando questa prospettiva che trovavo i reading dannosi e imbarazzanti; ora però considero anche che il frame della spettacolarizzazione è figlio della nostra epoca: certo impone una riflessione, bisogna tenerne conto, ma senza dimenticare che da migliaia di anni ci raccontiamo storie, ascoltiamo storie; c’è chi viene una prima volta, e poi torna, anche sapendo che ascolterà in parte ciò che ha già ascoltato, e talvolta già letto; quando ho domandato perché, mi è stato risposto che ascoltare storie dà gusto; e io mi sono ricordato di una verità antica quanto il mondo, sentendomi anche un po’ tonto. Mi pare, dunque, che con un sano primitivismo nel corpo e nell’atto si possa ancora praticare la condivisione delle storie riuscendo ad annullare quell’insopportabile alterità di piani tra narratore e pubblico che si avverte in modo così palpabile là dove domina il frame della performance o dell’evento culturale come indicatore di status.

Risposta al secondo luogo del nulla

di Stefano Sanchini

Stefano Sanchini è stato redattore della rivista di poesia e realtà “La Gru”, sue poesie sono apparse in diverse antologie e riviste, ha pubblicato: Interrail (Fara, 2007), Via del Carnocchio (Thauma, 2010), Corrispondenze ai margini dell’Occidente (Effigie, 2011) e La casa del filo di paglia (Sigismundus 2013).

Qui c’è il secondo luogo del nulla.
Qui invece il primo, e qui il terzo.

Caro fratello del cosmo, qui sulla Terra siamo nel pianeta a quattro dimensioni, poiché tre sono nello spazio e la quarta dimensione è il tempo. Il tempo che corre verso chi sa quale direzione, ma che ormai sappiamo in accelerazione come le innovazioni, che tenderanno ad essere infinite nel millesimo di secondo. Dunque ci ritroviamo a rincorrerlo con tutte le nostre degenerazioni, in questa follia in noi e in ciò che ci è intorno, ma prima che Cronos divori tutto questo, restano dei segni e delle rovine ancora da codificare e forse questo è il modo per ritrovare La Via che ci permette di uscire dal collasso ed essere, come l’essere che è all’origine. Come la teoria del racconto in cui sviluppata la storia, si finisce ritornando al suo inizio, è senz’altro a questo punto che si trova la storia dell’umanità in questo momento. Si chiude qui un ciclo di 26000 anni, finisce l’era del ferro e il Kalijuga. Rileggendo così la tua mappa astrale dei non luoghi, le cose mi si svelano più chiare. Ripercorrendo infatti la linea da te tracciata, dalla vela anti-materia dell’Ipercoop fino al campus, nel quale ora ti vedo seduto ad osservare quella vela che ti osserva, come un iper-poliziotto con due o, due occhi, che ti controlla nel tuo fermarti e prendere tempo, il mercato che crolla eppure controlla. Come vedi è spiazzato, cioè senza piazza, è sotto shock, non sa quale sia il tuo desiderio, non può più venderti la sua anti-materia.

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Terzo luogo del nulla

Il terzo dei tre pezzi su Pesaro che ho letto a Va bene uguale, il reading di domenica 30 settembre organizzato dal Quilombo nell’ambito di PerepePè.

(Qui il primo luogo del nulla, qui il secondo luogo del nulla)

Era un tardo pomeriggio d’inverno, un pomeriggio di pioggia. Io e quella che allora era la mia compagna eravamo andati all’Obi perché ci stavamo costruendo la casa dove volevamo abitare.
Camminavamo nei corridoi dell’Obi, e io pensavo: qua c’è un sacco di roba, deve esserci anche quello che vogliamo. Eppure, per quanti oggetti e parti di oggetti io potessi vedere, quegli oggetti mi sembravano tutti uguali, e non riuscivo a trascinarli fuori da lì e figurarmeli come sarebbero stati là dove avremmo dovuto metterli; all’improvviso non capivo a cosa potessero servirci. Guardavo le persone tutte intorno a me e pensavo: hanno una forza immaginativa portentosa, sanno separare uno di questi oggetti da tutti gli altri e immaginarlo in casa propria, o nel proprio giardino, e capire come sta, se gli piace, se gli dice, se c’entra e anzi se contribuisce a creare la suggestione che vogliono, l’immaginario che vogliono, la coerenza e il significato che cercano. E del resto, consideravo, cosa c’è di più facile del prendere un pezzo da un non-contesto e trasferirlo con la fantasia in un ambiente coerente, ispirato a un immaginario? Perché io non ci riesco?
E compresi cosa mi stava succedendo: per me l’Obi era già un contesto, incarnava un immaginario, coerente, totale: l’immaginario della fine degli immaginari, la fine della storia nella sua fase definitiva, il nulla realizzato, ovvero il nulla che non sa di essere nulla. Un luogo pazzesco, l’Obi, che distrugge le cose. Una distruzione al contrario, una distruzione permanente prima che le cose nascano, cose che forse non nasceranno mai e resteranno lì nella loro distruzione, smontate, decontestualizzate, senza la funzione che si suppone debbano avere, ma nella funzione di mostrarsi, esempi di se stesse.

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Secondo luogo del nulla

Il secondo dei tre pezzi su Pesaro che ho letto a Va bene uguale, il reading di domenica 30 settembre organizzato dal Quilombo nell’ambito di PerepePè.

Il Campus si trova a due chilometri da Piazzale Lazzarini, al di là del cavalcavia: vi si arriva procedendo sempre dritto sulla strada che il cavalcavia crea. Dunque è un luogo che con Piazzale Lazzarini è direttamente imparentato, e pare significativo che a metà strada di questi due chilometri che li separano, cioè esattamente a un chilometro dall’uno e dall’altro, si trovi il primo vero non-luogo pesarese, la vela di antimateria: l’Ipercoop.
Se saliamo sulla collina del Campus, quella con il cespuglio di alloro, e ci sediamo rivolti verso il centro, possiamo vedere l’Ipercoop nelle stesse proporzioni con le quali la si vede da Piazzale Lazzarini. Si vede anche la cima di Palazzo Cermatori, da qui, se si guarda oltre i robot schierati di via Goito, titani di pietra e metallo, guerrieri di una tecnologia da guerra fredda.
Io non ho frequentato una delle scuole che compongono il Campus, e su questa collina ci salgo d’estate e di pomeriggio, mentre questo luogo vive d’inverno e preferibilmente al mattino. Quando io vengo qui, questo luogo è svuotato. Sono un viaggiatore dello spazio che sbarca su un pianeta disabitato, e che, scrutando un complesso scolastico, cerca di ricostruire il modo di pensare, le aspettative e le speranze dell’antica civiltà che quel pianeta abitava.

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Primo luogo del nulla

Il primo dei tre pezzi su Pesaro che ho letto a Va bene uguale, il reading di domenica 30 settembre organizzato dal Quilombo nell’ambito di PerepePè. Ho scoperto oggi che il Dolce Vita ha cambiato nome (ora si chiama Mhuu Bar) e ha fatto sparire la vetrata liberty.

Io Piazzale Lazzarini l’ho visto molto tardi. Prima vedevo un mucchio di cose: vedevo Harnold’s, il teatro, la fontana, i portici con il distributore di preservativi, palazzo Cermatori, il Cavalcavia, la Madonna dei Cappuccini, i gazebo dei bar e delle gelaterie, la banca all’angolo con via Curiel, l’entrata della galleria Roma, le palazzine sulla destra e i palazzoni sulla sinistra. Ma Piazzale Lazzarini come entità organica, nel suo insieme, l’ho veduto tardi.
Forse perché quando vengo qui, sono subito investito da un campo di forze fatto di transiti e di attese, di tensione tra le direzioni possibili, di polarità in opposizione. È come immergersi nel mare e sentire la pressione delle correnti. Probabilmente perché questo luogo è l’omologo speculare di Piazzale della Libertà, un confine radicale, che si getta nell’acqua e nell’orizzonte senza il processo graduale della spiaggia. Anche in Piazzale Lazzarini, come là, c’è un limite: qui, dice Piazzale Lazzarini, e lo dice perentorio, qui finisce il centro. E il confine del centro è qua raffigurato come il confine del mondo, segnato da un cavalcavia che si innalza nel cielo.
Allora, nello stesso momento in cui sono riuscito a vedere Piazzale Lazzarini, ho pensato che tutta questa compulsione al movimento deve essere qualcosa che ha a che fare proprio con quel limite, come una turbolenza gravitazionale che si produce in prossimità di un varco dimensionale.

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