L’inverno nel cuore

Questa recensione è uscita sull’Indice di aprile.

Risale al 1990, questo breve romanzo di Jamaica Kincaid. Va così a situarsi, nell’ancora incompleta bibliografia italiana dell’autrice, tra Un posto piccolo e Autobiografia di mia madre (Adelphi), con i quali condivide due grandi temi: il rapporto di amore e odio con una madre soverchiante e la rabbia sorda della vittima del colonialismo, rivolta sia contro il dominatore occidentale sia contro il provincialismo dei compatrioti. C’è però in Lucy una differenza sostanziale: la storia si svolge a New York; la protagonista, una diciannovenne cariba, si trasferisce presso Mariah e Lewis, due coniugi bianchi e progressisti, per accudirne le quattro bambine, frequentare le scuole serali e considerare la prospettiva non entusiasmante di diventare infermiera.
Il nuovo ambiente diventa un modulatore per declinare i temi della Kincaid nella chiave inedita del confronto diretto con gli eredi dei dominatori: Lucy proviene da un luogo di miseria e sofferenza che è allo stesso tempo un paradiso per gli americani ricchi; nei fiori, nei frutti, nei campi arati, la cui vista e il cui sapore sono fonte di piacere per Mariah, la ragazza non può non vedere i prodotti del lavoro dei dominati.


Ma rispetto alla feroce disperazione di Un posto piccolo, Lucy mostra un approfondimento esistenziale, una necessità di procedere oltre la tematica politica che, se in parte preannuncia il capolavoro Autobiografia di mia madre, trova nello scenario nordamericano, nella scoperta del freddo e delle stagioni e persino in una vacanza estiva trascorsa di fronte a un lago torbido, così distante e diverso dal mare blu dei Caraibi, lo specchio della vita interiore della protagonista, rabbiosa, chiusa in sé stessa ai limiti dell’indifferenza, pressoché estranea all’amore, psicologicamente schiacciata dalla figura della madre, un carattere che la compattezza della storia  e il nitore della prosa non fanno che accentuare.
Certamente quello della ragazza dei Caraibi è un retaggio doloroso che legittima il suo sentire; in Autobiografia di mia madre la condizione del dominato diverrà paradossalmente un punto d’osservazione privilegiato, più vicino alla verità di un mondo d’errore, del quale il male è una componente integrante e incancellabile; e del resto Lucy scopre presto che, come già sospettava, gli americani bianchi ricchi sono solamente più bravi a nascondere l’errore sotto la vernice delle loro vite patinate, una vernice che tuttavia si scrosta facilmente.
Ma la concezione di Lucy non è più solo quella sociologica di Un posto piccolo e non è ancora quella metafisica di Autobiografia di mia madre. Ogni volta che i discorsi comprensivi e progressisti di Mariah si fanno generali, riducendo il dolore della ragazza a un’eredità di razza e di genere, la protagonista si mostra insofferente: il dolore è suo, una condizione intima e singolare  la cui cifra preponderante è piuttosto il tormentato rapporto con la madre; lo stereotipo non fa che offenderla.
Confrontato con le due opere citate Lucy appare come un lampo individualista, meno mediato dal pensiero e più concentrato sul fluire delle emozioni. Non potrebbe essere altrimenti: Lucy è un’adolescente che reclama il suo diritto a esistere e la sua libertà, persino la libertà di essere il prodotto di una storia tragica o anche solo la libertà di essere spaesata senza che ciò la riduca alla mera occorrenza di un destino collettivo. Quando ostenta indifferenza verso i valori condivisi o manifesta un sentire rovesciato, o sfrutta la relatività dei punti di vista etnici e sociali per sconvolgere le certezze di chi le sta di fronte, la sua non è ancora una polemica contro una concezione della realtà che non condivide: è una questione personale, una lotta per l’affermazione di sé che, al suo acme, troverà una chiave di volta nel ricordo, indistinguibile da un sogno, di una discussione sul suo nome avuta con la madre, figura ormai cresciuta nella mente della ragazza fino a divenire un dio immenso dalla sostanza del quale sembra impossibile uscire: Lucy sta per Lucifero, e se da un lato ciò dà un senso al passato e al presente della ragazza, a ogni sua cattiveria, indifferenza, ritrosia di fronte all’altro, facendone elementi di una rivelazione rovesciata da cui scaturisce un sì alla vita come possibilità del male che preannuncia il motivo –  centrale in Autobiografia di mia madre – della superiorità del valore della conoscenza del male sulla felicità, d’altro canto offre a Lucy la possibilità di sradicare un condizionamento asfissiante, e l’acerbo nichilismo adolescenziale comincia a vacillare.
Lucy si lascerà indietro la vecchia famiglia di Antigua e la nuova di New York. “Sono sola al mondo. Non è un risultato di poco conto”, considererà amaramente dal cuore del suo esanime mondo di valori trasvalutati – ridotto ormai all’appendere tende dai motivi tropicali alle finestre della sua nuova casa immersa nel gelo – prima di gettare definitivamente la maschera.