Le città-bioma come presente intensivo

Le città-bioma come presente intensivo

Configurazione Tundra è un libro intenso, breve, onirico, che si sviluppa in profondità più che in estensione e dunque istiga alla rilettura: un poco per farsi cercatori di quei legami tra le parole, quegli scivolamenti di senso, quei punti segreti che, magari, alla prima lettura, immersi com’eravamo nel sogno, sono in parte sfuggiti; e un poco per il gusto di riaddormentarsi e sognare ancora, di lasciarsi affascinare dal mondo ovattato modellato da Marta Fiani, e prendere sempre più coscienza del fatto che una parte di noi ne è inevitabilmente e pericolosamente sedotta.

Su Esquire parlo dell’esordio di Elena Giorgiana Mirabelli

Rito e sacrificio nella stanza profonda

Vanni Santoni - La stanza profonda

Pubblico una riflessione di Filippo Cicoli che amplia in modo inatteso il discorso su La stanza profonda di Vanni Santoni (che ho recensito qui). JN

L’uscita de La stanza profonda è un urto tellurico che scuote chiunque abbia mai tirato un d20, compilato una scheda PG, sconfitto un troll, insomma, chiunque in quella stanza, a volte, sia sceso. Lungi dall’essere un mellifluo amarcord, l’opera è una delle più lucide analisi condotte sul gioco di ruolo (gdr) e sul giocare di ruolo mai apparse in Italia. Un saggio che non può fare a meno della dimensione romanzesca. Anzi, la vera forza è proprio la sua imprescindibile ibridazione con la narrazione, poiché, al netto di tutte le possibili considerazioni, ciò che mantiene i giocatori all’interno della Stanza, e che ne scandisce la precessione, è proprio il potere della narrazione nella sua forma più pura.
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Intorno a “La stanza profonda” di Vanni Santoni

Vanni Santoni - La stanza profonda

Non so se si tratti del primo esempio al mondo, ma La stanza profonda è il memoriale di un dungeon master, vale a dire del narratore, arbitro, conduttore di un gioco di ruolo.
Il dungeon master non è dunque un giocatore come gli altri. Un giocatore comune è giocatore qua, nel cosiddetto mondo reale, ed è un personaggio di là, nel mondo allestito dal master; e in ogni momento deve scegliere se essere di qua o di là, tertium non datur. La condizione del master è diversa, e suggerisce di essere indagata avvalendosi di una strumentazione teologica, richiamando la figura del demiurgo, il modellatore di mondi, e precisando, come nel Timeo di Platone, i rapporti tra detto demiurgo e, da una parte, il regno delle idee cui il demiurgo attinge, dall’altra il mondo che dal demiurgo viene allestito: la sua direzione narrativa – l’anima del mondo – e i mattoni della sua costruzione – gli elementi – con una predominanza della prima, in un’ottica finalista piuttosto che materialista, vale a dire che «il ruolo del dungeon master è far accadere la cosa giusta e quello dei dadi legittimarlo, non viceversa».
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Una suggestione su “Urbino, Nebraska”.

Urbino, Nebraska di Alessio Torino (minimum fax, 2013) è insieme un romanzo e una raccolta di quattro racconti ambientati nello stesso universo, con quattro protagonisti ritratti mentre attraversano quattro soglie cruciali delle loro vite, in tempi diversi, ma tutti coinvolti – emotivamente, più che materialmente – da uno stesso evento: il ritrovamento, nel 1987, di due ragazze, Ester e Bianca, morte di overdose su una panchina della Fortezza Albornoz a Urbino.

I quattro protagonisti sono:

1) Zena Mancini: studentessa urbinate dell’università di Urbino nel 2010: mentre cambia corso di laurea e decide di seguire la sua nuova professoressa in un viaggio a Berlino.
2) Nicola Chimenti: giovane uomo nel 1994: mentre sta per farsi frate.
3) Mattia Volponi: grafico urbinate a Vienna nel 2013: mentre tenta di tenersi alla larga da Urbino.
4) Federico: ragazzino nel 2012: mentre attraversa la morte del nonno.

I quattro attraversamenti sono influenzati dalla conoscenza della vicenda di Ester e Bianca, i quattro attraversamenti non ci sarebbero se i quattro protagonisti non fossero a conoscenza della vicenda di Ester e Bianca, o non sarebbero gli stessi attraversamenti. I quattro protagonisti non sembrano sempre coscienti di questo. La vicenda di Ester e Bianca è la fonte di una consapevolezza che sta nello sguardo sul mondo: dona la capacità di vedere il reale.
Urbino, Nebraska è una storia di soglie.

Una storia di soglie è un campo di tensioni.

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Prose Combat

Simone Ghelli - Voi, onesti farabuttiHo già scritto una volta della mia difficoltà a parlare delle opere di Simone Ghelli, eppure bisogna parlarne, perché Voi, onesti farabutti è un romanzo importante e bisogna dirlo. E però non riesco nemmeno a scegliere un passo da citare per mostrare almeno un esempio di questa scrittura straordinaria; ogni volta che dico “eccolo”, immediatamente sento di fare un torto al resto del romanzo. Forse è anche per questo che, nelle loro (ottime) recensioni, Vanni Santoni di citazioni ne ha portate tre, e Matteo Pascoletti otto. Sono citazioni la cui presenza è più che motivata dai contenuti che Matteo e Vanni hanno scelto di esporre, ma ho l’impressione che di fronte a questo testo si senta forte il bisogno di mostrare al lettore della recensione di cosa si sta parlando, di porgergli un esempio concreto di questa scrittura. Andate a leggerle, quelle recensioni. Di mio vi dico che la lingua di Ghelli è magra e pregna: è stata immersa nella materia e poi strizzata. E rotola: leggere Voi, onesti farabutti è fare l’esperienza di un flusso ossessivo, inarrestabile, e nel contempo accorgersi che è un problema tuo, perché il narratore è saldo, nella tempesta: con quella che per te è una valanga, lui ha imparato a conviverci, a modularla, a dominarla, a farne un potere; è diventata la sua voce: è un mangiafuoco, un fachiro, un’entità in grado di lasciarsi attraversare da elementi che distruggerebbero qualsiasi altra creatura dotata di un’attività psichica. E ti rendi conto che non è altro che il coraggio di uno che contemplava il suo complesso di rocce, e che poi un giorno ha deciso: si è levato in piedi ed è andato via; quando è tornato, aveva con sé un mucchio di corde: ha legato le corde attorno alle rocce, una per una, poi si è voltato, e gettandosi le corde sulla spalla e stringendo tutti i capi tra le mani, ha cominciato a tirare, a camminare trascinando le rocce con sé, con il suo corpo magro. Olio e vino, humus e sangue. Le visioni salgono dai buchi della terra: ho visto una famiglia antica in guerra, asserragliata tra le stoviglie sotto le raffiche della televisione che ogni giorno invade la Polonia. Voi, onesti farabutti è un rifiuto della cattiva astrazione, è il vivere nella carne il riflesso devastante del macrosistema. Un sasso di simboli e sensi che sale dal fondo del corpo, da ciò che lo costituisce e lo trascende, tellurico, a interpretarlo non mi ci provo nemmeno: quando le botte mi arrivano così, il lavoro lo fanno al di sotto della mia coscienza. Lo assumo per come è, e attendo che qualcuno che ne sa a pacchi si prenda la briga di schiavardare questo ordigno.

Qualche libro del 2011

Di recensioni, recensioni di narrativa in particolare, quest’anno ne ho fatte pochissime, come si evince sfogliando la categoria recensioni su Yattaran: solo il post sui plugin della saggistica e due romanzi: Il bisogno dei segreti di Marco Candida e Se fossi fuoco arderei Firenze di Vanni Santoni. In realtà ho parlato anche di Nessun Paradiso di Enrico Piscitelli: qui (e anche del saggio di Federica Sgaggio, Il paese dei buoni e dei cattivi).
Oltre questi, mi sento di consigliare altri quattro titoli: L’ora migliore e altri racconti di Simone Ghelli (qui un estratto), racconti, lo dico subito, dei quali io non sono in grado di parlare (ma in parecchi, e bravi, lo hanno fatto), tanto mi hanno coinvolto e in quale modo; e questo perché qui, dopo il primo meta-racconto, che svolge anche il ruolo di sapiente introduzione, è tutt’un esplodere di epifanie che si compie nello spazio del preverbale onirico, e il filo narrativo si immerge nell’abisso, senza per questo mai venire meno. Storie. Ambienti. Suggestione. Luci. Oscurità. Vibrazione. Cose. Ghelli la sa lunga, soprattutto la sa profonda; posso dire solo: leggetelo, è un’esperienza.
L’impavida eroina eccetera, di Mauro Mirci, è un’altra raccolta di racconti – e siamo già alla seconda raccolta di racconti: io adoro le raccolte di racconti, specie se confezionate con questa perizia – racconti, quelli di Mirci, senza fronzoli, senza trucchi, solo racconti, puliti, precisi, delicati, empatici, narrati con quell’atteggiamento autoriale impeccabile che può essere solo il frutto della pietas verso i personaggi e dell’attenzione al reale, e che proprio per questo sanno inerpicarsi ai vertici e spalancare immagini sublimi, che illuminano tutto; vi dico solo: il tedesco alla mitragliatrice, le buste, il cortile; chi leggerà capirà, e vedrà che ho fatto solo esempi.
De La seconda persona di Demetrio Paolin (qui un estratto), della capacità di Paolin di perlustrare l’interiorità in un modo che rende la sua scrittura completamente diversa da tutto ciò che si trova in giro, della sua misericordiosa spietatezza, del suo trascendente corporeo, del suo male benigno, del suo bene doloroso, del suo materialismo sacro, del suo sacro materiale e di altri paradossi concettualmente perfetti tenterò di parlare, insieme a lui, il 14 gennaio alla Biblioteca San Giovanni di Pesaro.
E non è un romanzo ma quasi – per il piglio, per l’urgenza, per l’assurdità – Pazzi scatenati, il libro-inchiesta di Federico Di Vita sull’editoria italiana; che uscirà a gennaio, ma cominciate a pressare il libraio. Un libro che semplicemente va letto, e credo che questo consiglio lo darò, d’ora in poi, in occasione di ogni presentazione di libri nella quale mi troverò a essere parte attiva.

Perí Physeos

Vanni Santoni, Se fossi fuoco, arderei Firenze

Si può mettere così:

Questa Firenze la osservi da fuori come una fortezza spettrale, dall’alto come una valle dell’Ade: è un sogno lucido, un luogo dello spirito trasformato in luogo degli spiriti. Sono strade di pietra, un tempo esposte ai cicli stagionali e calpestate da giganti dell’ingegno, ora situate in una dimensione notturna, sotratta alla temporalità. In questa Firenze ci entri e per quelle strade ti ci trovi, e allora le vedi: le piccole comete di fuoco che le percorrono, principia individuationis che saettano in cerca di una via d’uscita, o di altre comete, e sbattono contro i muri, o si scontrano tra loro: è il brodo primordiale che quando sarà tempo riporterà il tempo, perché quest’ordine, che è identico per tutte le cose, non lo fece nessuno degli dèi né gli uomini, ma era sempre ed è e sarà fuoco eternamente vivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne.

E si può mettere così:

Se fossi fuoco arderei Firenze di Vanni Santoni: in cinque pagine ti accorgi che stai già andando agli ottanta, in quindici sei ai centoventi e pensi che lo solcherai così fino alla fine – sbagliato: non sei ancora alla seconda parte: allacciati le cinture per tempo; ma che parlo a fare, le braccia non si muovono e le mani pensano solo alle pagine da sfogliare: ti ricorderai di quelle benedette cinture solo quando avrai letto l’ultima parola – mentre lui ti trascina negli ingranaggi delle psicologie individuali che si inseguono e si innestano l’una sull’altra in un logos che è corale allo stesso modo in cui è corale un pogo.

E si può mettere in decine di altri modi.

Resa di un recensore di Candida (parte quarta)

Marco Candida, Il bisogno dei segreti

Come si può leggere nelle parti precedenti di questa resa, qualche considerazione sul Bisogno dei segreti l’ho fatta; per esempio, questa: il ruolo che negli altri romanzi di Candida era svolto da una percezione distorta della realtà, una percezione prodotta dall’ossessione, nel Bisogno dei segreti è svolto da una consapevole manipolazione dei dati di realtà a opera di una protagonista che organizza ai danni del mondo un piano ben preciso, un piano che consiste nel trasformare la realtà altrui in un incubo. Per ora teniamola qui, questa considerazione.
Ho detto che in questa quarta e ultima parte avrei parlato del modo in cui, nel Bisogno dei segreti, accade tutto ciò che accade. Ecco. Innanzitutto c’è il gusto della lettura, talmente intenso che posso prendere in mano il libro con le migliori intenzioni esegetiche e dopo un po’ sto correndo sulle parole dimenticandomi completamente degli universi candidiani, delle cartine geografiche, di tutto quell’armamentario cerebrale da cerebralisti; dopo averlo letto la prima volta mi sono pure detto: rileggendolo non succederà; e invece è successo di nuovo. In secondo luogo nel Bisogno dei segreti i temi candidiani sono come sminuzzati, centrifugati, amalgamati, affogati in una pasta completamente nuova; qui c’è un testo che non rinuncia alle descrizioni ossessive ma, rispetto al passato, nasconde i simboli più profondamente, o diversamente: i simboli entrano nella mente di soppiatto, come alle spalle di una sentinella; ma la sensazione è che andranno tutti dove devono andare, e andranno a conficcarsi più in profondità di dove li avrei sistemati io se si fossero fatti vedere dalla sentinella.

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Resa di un recensore di Candida (parte terza)

Marco Candida, Il bisogno dei segreti

La via mistica. Forse di fronte a un mondo, a un corpo e a una morte che reclamano la propria realtà, di fronte alla coscienza piena della nostra transitorietà, è possibile risvegliarsi davvero (dalle manie, dal sogno, dalle paranoie), e amare davvero (se stessi, gli altri), tanto da sacrificare il proprio buon nome e la propria immagine pubblica come se niente ci legasse ad essi. Ora, seguendo le tradizioni mistiche, è possibile ipotizzare che chi si trovi nel pieno della coscienza, ovvero unito con lo spirito, possa trattare se stesso come un altro pur rimanendo uno, cioè possa distaccarsi da sé e amarsi come persona. In questa prospettiva è possibile leggere gli atti di Connie non come un atto di egoismo e un atto di altruismo in contraddizione tra loro, ma come un unico atto altruista, una redenzione di tutti, compresa la propria persona, il frutto di un amore totale e incondizionato verso tutto e tutti, compresa la propria persona. È possibile, allora, che sulla via mistica le due spiegazioni di Manuel siano vere entrambe?

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