Svegliami 1

J: -Posso farti una domanda?
B: -Hhh…
J: -…
B: -Va bene. Fammi la domanda, su.
J: -Perché hai scelto lui e non me?
B: -Lo sapevo…
J: -Cosa?
B: -Che la domanda era questa.
J: -Sì, effettivamente è questa. Puoi rispondermi?
B: -…
J: -…
B: -Perché… vedi, tu non riesci a capire… Lui se la tira, fa sembrare che ti fa un favore, racconta un sacco di balle su di sé: è il classico tipo stronzo, ti dà insicurezza. Capisci? Si fa desiderare, si sa… vendere.
J: -…
B: -Tu invece ti proponi cortesemente, ti poni per quello che sei, si capisce subito che non stai mentendo… Con te è tutto chiaro, tutto limpido: di uno come te si può essere solo amici.
J: -È questo che dovrei capire?
B: -Vedi? Non puoi capirlo. Eppure chissà quante volte te lo sarai sentito fare ‘sto discorso.
J: -Tante da maledirlo, ma l’ultima volta è stata nel 1997, e a farmelo è stata Rossella, terza liceo classico.
B: -Ecco, vedi allora?
J: -Ma “vedo” cosa? “Vedo” cosa? Siamo nel 2007, tu hai trentasette anni, ti chiami Bartolomeo e hai una ditta di cucine, e hai assunto un altro invece di me perché lui è un coglione, vacca miseria, ti rendi conto?
B: -Tz. Vedi? Non capisci.
J: -Cosa? Cosa “non capisco”?
B: -Non ti stai facendo desiderare, stai sbagliando tutto…
J: -Non ci credo…
B: -…dovresti sorridere, fingere che mi sono perso qualcosa…
J: -Ditemi che non è vero…
B: -…tipo, che so: farti vedere mentre lavori per un altro.
J: -Svegliatemi, per la madonna svegliatemi.

Ecco

Caro J.,
le scrivo in qualità di amministratore dell’Istituto La Casa della Gioia per domandarle quante persone le abbiano telefonato per iscriversi al corso di filosofia che lei terrà presso il nostro Istituto La Casa della Gioia.
Saluti.
L.

Caro L.,
le scrivo per comunicarle che finora non si è iscritto nessuno, tanto che io per primo credevo che i volantini non fossero ancora stati lanciati. Avendo trascorso la primavera e l’estate e buona parte dell’autunno a preparare questo corso, sono piuttosto preoccupato.
Saluti.
J.

Caro J.,
le scrivo per comunicarle che i volantini sono stati diramati dal nostro Istituto La Casa della Gioia da circa una settimana, in numero di ben 200 copie delle quali 120 sono state spedite al collegio dei giovani ingegneri idroelettrici di Pisa in trasferta, mentre 80 sono state inviate agli anziani che seguivano i corsi di computer per anziani. Evidentemente non c’è stato il riscontro sperato.
Saluti.
L.

Caro L.,
credo che sia indispensabile destinare i volantini informativi anche ad altri luoghi: le strade della città, le facoltà – per esempio scienze della formazione e scienze della comunicazione, dato che il corso prevede di analizzare i suddetti temi dal punto di vista della filosofia antica – senza tralasciare biblioteche e palestre, essendo il corso aperto a tutti e studiato per essere di facile accessibilità.
Saluti.
J.

Caro J.,
in qualità di amministratore dell’Istituto Casa della Gioia potrò chiedere alla nostra tirocinante iscritta al corso di scienze della formazione di portare volantini in numero di due o tre, che farò appositamente stampare, presso quella facoltà.
Saluti.
L.

Caro L.,
lasci pur tranquilla la sua tirocinante: verrò personalmente a stampare a mie spese altri volantini e a distribuirli in città.
Saluti.
J.

(Calcio alla sedia, lancio della pila di libri paper e appunti, imprecazione, pugni stretti, occhi chiusi. Squilla il telefono)

-Pronto?
-Pronto…
-Sì, chi parla?
-Io sono Sandro Garelli.
-Buonasera Signor Garelli, cosa posso fare per lei?
-Ecco.
-…
-Ecco. Io leggo qui… aspetti che metto gli occhiali… io leggo qui il volantino della Casa della Gioia “Le strategie dell’anima… filosofia… educazione etica e comunica… comunicazione”.
-Sì.
-Ecco. Io voglio sapere delle cose.
-Certamente: sono qui per questo. Mi dica.
-Ecco. Insomma. Ma questo non è un corso del computer per gli anziani.
-No, Signor Garelli: è un corso di filosofia.
-Ecco. Ma io non voglio mica fare questo corso.
-Non c’è problema Signor Garelli, a sua discrezione.
-Ecco. Ma io avevo detto di mandarmi le cose di quando facevate il corso del computer.
-Capisco Signor Garelli.
-Ecco. Non del corso di filosofia. E cosa diamine me ne frega a me del corso di filosofia? Niente.
-Immagino, Signor Garelli: credo che debba rivolgersi alla Casa della Gioia e chiedere che le siano mandate solo le informazioni relative ai corsi di computer.
-Ecco. Ma ci sono dei corsi del computer che cominciano o no? Eh.
-Non lo so, Signor Garelli, ma può tranquillamente domandarlo alla Casa della Gioia.
-Ecco. Appunto. Insomma. Eh.
-…
-Ecco. Aspetti. Io qui leggo “filosofia”… ma son cose importanti queste, mica si può. Faccia un po’ vedere: “Socrate”… e chi lo sa cosa dice Socrate, no?
-Be’ vede…
-No! Dice pace e volersi bene. Ecco. No?
-…
-Ecco. Mica si può, e chi sa davvero cosa dice Socrate? Nessuno. Son cose serie, queste. Insomma.
-L’insegnante si è laureato con una tesi sulla filosofia socratica, Signor Garelli.
-Ecco. Ma cosa diamine c’entra con il computer? Non c’entra niente.
-Niente, indubbiamente.
-Ecco. Appunto.
-…
-Comunque grazie. Lei è stato molto gentile.
-Grazie a lei, Signor Garelli.
-Ecco.

Clic.

(Rimettere in piedi la sedia, raccogliere i libri e gli appunti, stringerli a sé, chiudere gli occhi, sentire l’amore).

The Otherz

-Pronto.
-Ciao Jacopo!
-Oh… Ciao.
-Sono Matteo.
-Oh… Ciao.
-Matteo °°B°°.
-Oh… Ciao.
-EEEEH! Come staaai? Senti volevo chiederti se venivi a una festa dell’8 marzo a casa mia.
-Eeeh… Grazie maaah… Sono incasinatissimo. In questi giorni. Non ti so dire. Ti confermo più avanti.
-Ah dai è una bella festa c’è un sacco di figa e poi è solo un aperitivo non ti toglie molto tempo alle dieci ognuno a casa sua.
-Eeeh… Non ti so dire. Sono incasinatissimo. In questi giorni. Ti confermo più avanti. Tra il 7 e l’8.
-Va bene dai me lo dici, me lo dici il 7 ma anche l’8. E Paolo? Ce l’hai il suo numero?
-Eh?
-Paolo!
-Che Paolo?
-…
-.
-Paolo. Su. Paolo. Cosa sei rincoglionito? Paolo.
-Paolo?
-Ma… insomma… ma Paolo cristo, ma Paolo il friulano.
-Ascolta, io non conosco questo Paolo, quindi stai calmo.
-Ma come non lo conosci! Ma come! Ma come! Ma va a fare in…! Ma… insomma… ma… ma chi sei?
-Matteo, mi hai chiamato tu. Sono Jacopo.
-Ma che Jacopo?
-Jacopo ““N””.
-…
-.
-Ah. Cristo. Sei Jacopo ““N””. Cazzo… È che ho sbagliato Jacopo. È che ce ne sono tanti in rubrica. Sapessi. Un sacco ce n’ho. Di Jacopo. Sai?
-Tranquillo.
-Eeeh. Vabé, fa niente: puoi venire anche tu alla festa, se ti va.
-Grazie. Ti faccio sapere l’8.
-Ah. Sì. Allora ciao, eh?
-Ciao.

-Pronto.
-Jacopo!
-Eh.
-EEEEH! Come staaai? Senti volevo chiederti se venivi a una festa dell’8 marzo a casa mia.
-Me lo hai appena detto.
-Ma allora…
-.
-…Sei tu: anche quest’altro sei tu!
-Già.
-Quindi tutti gli Jacopo della mia rubrica sei tu.
-.
-…
-.
-Senti volevo dirti che avevo proprio voglia di parlare con te, avevo proprio voglia, sai? Sono giorni che me lo dico, sai? Quanto mi piacerebbe parlare con Jacopo ““N””.
-M!
-Quindi vorrei che venissi alla festa, sai: è a casa mia, l’8 marzo. Perché avrei proprio voglia di fare quelle domande che farei a te. Proprio quelle domande che farei a Jacopo ““N””.
-Capisco. Può darsi. Non ti so dire. Sono incasinatissimo. Ti confermo più avanti. Tra il 7 e l’8.
-Ah, ochéi. Sarebbe bello. Davvero.
-Grazie. Se posso venire ti faccio sapere.
-Allora ci sentiamo. Se senti Paolo… non ho il suo numero… avverti anche lui.
-Certamente.
-Bravo.
-Ciao Matteo.
-Ciao Paolo.

ciao interessante quanto scrivi

Cara amica che scrivi «ciao interessante quanto scrivi» oppure «ciao interessante questo blog» o spesso solo «ciao». Ti prego, per una volta vieni meno alla tua ferrea legge:
leggi un post: leggi questo post.
Non fraintendermi: leggi solo questo post: non vorrei mai che tu cominciassi a leggere i post che commenti. Finirebbe tutto. No, tu così devi rimanere: bendata ai contenuti e alle pertinenze come il caso, errante, di link in link sempre fuggendo, famelica di rapporti corrisposti, sacerdotessa addetta all’aggiornamento compulsivo del tuo dio fatto di cifre. Io questo tuo ufficio lo leggo chiaramente nei «grazie di essere passato», lo leggo nei «ciao link ricambiato»; lo leggo nel tuo ripassare qua a distanza di sei mesi, e annunciare che ripasserai dimenticandoti che eri già passata scrivendo all’epoca «interessante questo blog ripasserò»; lo leggo nel commento che hai lasciato ieri a un post di un famosissimo scrittore, post scritto una metà dal noto campioncino e l’altra metà da uno che ha scritto un libro sul noto campioncino, e tu, ambulante paradiso surreale, che commenti con un circostanzialmente ultrapolisemico «interessante quanto scrivi»; lo leggo quando sporadicamente, magari trascinata da una intestazione, decidi di cambiare formula e sconvolta scrivi «argomwrno forte» su un blog impegnato contro la pedofilia.
Ecco, io ora ti imploro: riconosci l’esistenza nostra, creature che godiamo di contenuti, e riconosci il nostro mondo, il nostro immaginario, i nostri gusti, le nostre aspirazioni, la nostra forma di vita; riconosci come, tradotte nella nostra realtà, le combinazioni di blog, post e tuo-commento diventino geniali, e, se sei davvero grata a questa realtà reticolare che rende possibile il commercio delle presenze mere, e se sei grata a tutti noi che ogni giorno la alimentiamo, allora ricambia, cara amica, ricambia, e invece di costringermi a digitare dentro al box di google il tuo nome o "interessante questo blog" nelle sue varianti, per poi trovarmi a sfogliare link inutili, dal tempo ammutoliti, rendi a tutti disponibile la celeste pagina dei tuoi ultimi 20 commenti su splinder.
Dai… che ti costa?

A F

Se tu fossi qui, lo so, ti infurieresti e fisseresti nei miei occhi con quegli occhi spalancati, da allarme e da intenzione accesi, che da sempre ti possiedono senza darti pace. Pesce adriatico dai muscoli superbi. Se tu fossi qui, lo so, mi urleresti in faccia che la vita è superficie estremamente seria e studiata per il gioco, che chi scrive vive tanto e si tuffa nello scontro degli oceani, e si vota alla caccia e all’assassinio di se stesso. Samurai per sempre, ché comunque morti siamo. Se tu fossi qui, tu ci staresti ancora a curarci di pensare solamente alle ragioni delle azioni e mai alle loro conseguenze, a prendere la notte a petto nudo, rivendicare gli attentati alle pubbliche opinioni, mostrificarci sopra ai prati e sopra ai testi per fare di noi stessi spugne di sostanza e d’attributi, piangere del cosmo e della nostra permanenza a un tempo futile e enigmatica, smettere di piangere, impazzire di risate e di furia di creazione ancora. Bambino che detesta i piagnistei, nato da esser grande. Se tu fossi qui, fermeresti pochi istanti il tuo pensiero per considerare quanto il mio sia corso a te nei giorni fieri e in quelli privi di pretese, poi, proiettile che porta avanti il tempo, scuoteresti la tua mente e le mie spalle, per tornare all’istante del qui e ora che sempre e solo si attraversa. Giusta grazia resa, in te invisibile ai tantissimi, ma è il medesimo coraggio di chi non ha mai aspirato a servire i banchetti raffreddati infarciti dalla colpa. Se tu fossi qui, io lo so, avrei forza per risate e fuoco di parola, avrei occhi attenti, e vigili, e pieni di sorriso. Qui rimangono le carte impolverate, i progetti senza scienza e senza schiena, i versi solitari che a nessuno fanno rima, le abitudini perdenti della microborghesia. Tieni duro, non lasciare che i maiali ti travolgano, circóndati di specchi e ricordati chi sei, affronta ancora oggi lo scoglio di salsedine, disciplina la metafora che ti scorre inesauribile tra i muscoli. Spero ci reincontreremo, spero presto vibrino i levare, e le gite, e le liti, e il manto verde dei tuoi prati, e le frecce di questi nostri archi testardi e artigianali.

Il novissimo Kyashan – La rinascita

Stamane a Bologna è partito il future film festival. Alle undici di ‘sta mattina sono andato a vedermi La Rinascita, il discusso film tratto dalla mitica serie Kyashan. Il film verrà riproiettato questa stessa sera alle 23.00 al Capitol. Tecnicamente degustibus: se vi piacciono i video dei Prodigy, i videogiochi ultramoderni, i combattimenti dove si capisce poco e la paccottiglia techno-gotico-metallara, bé, allora dovreste andarci assolutamente. Per quel che mi riguarda, le parti migliori sono proprio quelle a musica sparata, dove l’effetto videoclip è almeno portato a estreme conseguenze. Identici restano i nomi dei personaggi e il costume di Kyashan, privo però (simbolicamente?) del casco, che viene distrutto da un’esplosione poco prima della rinascita del nostro. A volte, come nel caso della rivisitazione dei cupissimi scenari da seconda guerra mondiale, l’impatto della tecnologia disponibile restituisce vita all’estetica dell’originale trascinandola al limite; e chi come me ha adorato il cartone apprezzerà soprattutto l’unico combattimento revival tra Kyashan e un plotone di robot, realizzato dannatamente bene, tanto che viene da domandarsi se non era il caso di sfruttare le nuove potenzialità tecniche per girare un remake fedele all’originale. E invece no: il film è volontariamente l’opposto della serie originale: là Tetsuya si sacrificava di sua sponte e rinunciava alla propria umanità facendo di sé l’androide Kyashan, l’unico in grado di combattere gli altri androidi, quelli nazisti, decisi a sterminare il genere umano; diversamente nel film, dove Tetsuya muore in guerra e viene fatto rinascere forzatamente dal padre grazie alla biotecnologia; ancora, nella serie originale gli androidi erano indefinitamente più potenti e soprattutto più cattivi degli umani, i quali sviluppavano al massimo una forma di razzismo nei confronti dei robot (razzismo del quale Kyashan era spesso vittima); nella nuova versione tutti sono fascisti e guerrafondai, tutti sono cattivissimi e potentissimi, e i neo-nati non sono androidi bensì cadaveri rimaneggiati dall’aspetto e dalle motivazioni decisamente umani. Kyashan si risveglia in un mondo nel quale non voleva tornare, con il cuore reso impuro dalla guerra dove ha ucciso ed è stato ucciso, disorientato e incapace di prendere le difese di qualunque parte in causa, se non di quei villaggi i cui abitanti vengono sterminati (dopo essere stati bollati come “terroristi”) dai soldati nevrotici che eseguono entusiasticamente gli ordini più brutali e dei quali lui ha fatto parte nella sua prima vita. E la vita, anzi, la negazione del significato della vita è l’oggetto di critica preferito dagli autori: gli uomini uccidono e rianimano con una facilità di mezzi e una leggerezza d’animo che ha dell’incredibile, mentre è proprio l’unicità della vita a renderla densa di significato e di rispetto, e, circolarmente, è la comprensione di tale unicità che inibisce l’assassinio: in pratica, la tendenza alla rianimazione conduce alla tendenza a uccidere. La sentenza morale finale del film è di un pacifismo psicologicamente violentissimo: esistere genera il male naturale, quello degli altri più che quello interiore, cioè: esistendo non possiamo che fare male agli altri, quindi non-esistere o smettere-di-esistere è la redenzione, o almeno questo è quello che sono riuscito a evincere dal complesso, dato che a tre-quarti del film i sottotitoli sono andati a farsi benedire per riprendere pochi minuti prima del finale, e i dialoghi probabilmente più importanti – compreso il lungo monologo del supercattivo – ce li siamo figurati ascoltando il giapponese. Il pubblico è stato molto comprensivo: se fossi stato un fanatico che ha atteso per più di un anno questa anteprima e me l’avessero seccata così dopo aver intascato i miei sette euri non sarei stato tanto accondiscendente. Auguro agli spettatori delle 23.00 di incorrere in più felice circostanza.

Altri Bolognesi

Questo racconto è stato scritto un anno e mezzo fa, di getto, durante i festeggiamenti per l’avvento prossimo del Cinese alla guida di Bologna. In realtà è un racconto d’amore, per una persona e per una città. La prima deludeva, la seconda stava per farsi perdonare, o almeno così sembrava. Paradossalmente, la chiusa ha più significato oggi di allora. Intanto, Bella Ciao rimbalza un articolo del Manifesto del 23 ottobre che – per quanto non mi faccia impazzire chi lo ha scritto – centra perfettamente il punto: per chi non è di Bologna: non fatevi infinocchiare: qua della legalità non si vede nemmeno l’ombra; chi fa il grosso con i deboli e si caga in mano con i potenti non è un difensore della legalità: è un vigliacco. Per quel che ci riguarda, lo avevamo già nasato.

Zishan ha preso le faxe nelle lattine da un litro e ride come un vecchio assassino che non si annoia mai di ammazzare. Però le tiene ancora, le vietatissime moretti di vetro da 66 nel frigo. La gente fa avanti e andrìa attraverso la porta stretta della kebabberia, minuscola e irripetibile funzione del mercato multidimesionale. Quella porta divide la luce bianca e bollente espansa nei due metri per due della kebabberia di Zishan dai sassi rossi e gialli imbruniti dalla notte del Pratello, dal selciato massaggiante da cui io (PS) e il Marchese (MI) sudiamo solo a guardarli, là dentro, Zishan e Nadim.

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Micragna non vuole morire

Il cellulare squilla. Il numero sul display non mi dice nulla. Rispondo:
-Pronto?
Un istante di silenzio poi sento:
-Nacci?
Conosco questa voce, non mi ricordo di chi è ma la conosco, l’ho già sentita e la vibrazione che passa dentro me non è affatto buona. Anzi, è proprio cattiva.
-Sì, sono io. Chi parla?
-Sono Begotti.
Dissolvenza.

-Nacci?
-Sì, sono io. Chi parla?
-Sono Begotti.
Cosa cazzo vuole questo adesso, perché questo strozzino schifoso torna dal suo giovane e già lontanissimo passato. Cosa cazzo vuole da me.
-Senta io ho visto che ci sono dei danni…
Porco lo sapevo porco.
-Che danni, scusi?
-Danni al frigorifero, che non si chiude cioè scatta e si chiude male e non si chiude, è capito, no?
-Ho capito che qualcuno ha spostato il frigo e non ha regolato i piedini, per cui il frigo pende e quando pende ed è aperto, dato il peso dello sportello, lo sportello non fa rientrare perfettamente l’interruttore a scatto della luce interna e dunque è contro quello che tocca. Basta regolare i piedini e rimettere sul suo binario l’interruttore a scatto della luce. Contento?
-No, è proprio rotto.
-Senta io sono uscito da quell’appartamento, il contratto non c’è più, lei ha controllato per due giorni di seguito e anche con il tipo dell’agenzia che tutto fosse a posto, io le ho consegnato le chiavi, lei mi ha consegnato le caparre e si è tenuto cento euri di acconto per venti euri di condominio che le faranno pagare forse ad aprile e per dieci euri di vetro del frigo che secondo lei potevano anche essere trentacinque virgola cinquantacinque e che ha dunque arrotondato a trentasei. Bona lé. Dopo due settimane mi chiama, mentre sto guardando la juve, peraltro, e mi dice che il frigorifero è rotto. Il frigorifero era sano quando sono uscito, lei lo ha visto, quindi non capisco proprio per quale motivo lei mi telefoni.
-Ascolta, io ti telefono perché speravo, perché ho sempre la massima cioè abbastanza fiducia in te, perché so che hai sempre pagato le cose che si rompevano e me le dicevi tu, quindi io ho molta fiducia in te.
-Ho pagato anche cose che non dovevo pagare e il frigo era a posto, è sempre stato a posto.
-Senti, io ho la fiducia a te. Ascolta. Il frigo ho fatto male io a non dirtelo subito sono stato semo io ma ce ne siamo accorti il giorno dopo che era rotto, la donna che ho messo là a lavarlo mi ha detto che era crepato, poi ci abbiam ragionato su e non possono essere stati quei nuovi perché si vede che è una roba vecchia.
-Se lo ha visto subito quando ancora i nuovi inquilini non erano entrati che bisogno ha avuto di ragionare se eran stati loro o no?
-Ascolta son stato semo io che non te l’ho detto e hai ragione però la donna mi ha detto anche che il vetro del frigo non è il suo e.
-Certo che non è il suo e ringrazi che non me lo sono portato via visto che si è tenuto trentasei euri di acconto per chiamare i tizi che fanno i peggiori frigoriferi d’Europa. Del vetro lo sapeva e se non glielo diceva l’onest’uomo che sono manco se n’accorgeva.
-Sì infatti io non ho detto che non lo sapevo, ho detto che non è il suo, è capito? Io ho sempre avuta la fiducia, in te, è capito? Il frigo è rotto è tutto crepato.
-Cos’è che è?
-E’ crepato sopra nella maniglia della plastica.
-Non lo era, e lei lo ha visto.
-Io non ho visto bene.
-E da me cosa vuole?
-Niente io capito perché io ho sempre avuto fiducia in te, mi son sempre trovato non bene benissimo, è capito? Quindi io speravo che il frigo non era rotto e che tu lo so che non sei stato tu ma magari qualcuno che è un cretino è montato sullo sportello del frigo perché sa che io non sono uno che fa pagare quello che non è da pagare e approfitta, è è capito?
-Io ho capito che lei dopo due settimane mi chiama per dirmi che è rotta una cosa che due ssettimane fa non era rotta. Quindi?
-Ascolta. Io ti o chiamato per la fiducia e tu non mi dici niente. A posto così. Ci sentiamo quando c’è da mandare quello che ti devo mandare e a posto.
-Arrivederci.
-Grazie. Arriveder- Clic.

-Che voleva lo strozzino?
-Comunicarmi con parole sue che mi ruberà tutti i cento euri di acconto che gli ho lasciato. Che fa la juve?

Io li chiamo i nomoteti

Appeso alla maniglia della finestra della cucina, il sacchetto della spazzatura contiene solo la metà della spazzatura. La seconda metà della spazzatura è al di sopra del sacchetto, o meglio, al di sopra della spazzatura che riempie il sacchetto: fazzoletti unti, scatolette di tonno, vaschette di mozzarella, i più svariati rifiuti dell’industia alimentare si inerpicano in spericolati pinnacoli per un’altezza pari a due terzi dell’altezza del sacchetto, sviluppandosi per una larghezza pari alla larghezza del sacchetto più un terzo. È spesso notevole mettere in rapporto il sacchetto della spazzatura con l’ultimo cassetto della cassettiera, perenemmente aperto a causa dell’enorme quantità di sacchetti di plastica che si è deciso esso debba contenere. Faccio un passo dentro la cucina. Sento qualcosa scricchiolare sotto le suole delle mie ciabatte. Torno indietro. Faccio la doccia, mi vesto, faccio colazione al bar con un cappuccino e una pasta ricoperta di glassa. Leggo il giornale. Penso a quello che loro mi hanno detto. Mi hanno detto che loro non esiterebbero a definire «pulito» ciò che vedono, ciò in cui vivono. Faccio cadere dalla felpa le briciole di glassa.
Dissolvenza.

Sono al mediomarket sotto casa. Ho un dubbio atroce. C’è solo una persona che può preoccuparsi di comperare i panni per il pavimento, e quella persona sono io. Il panno per i pavimenti è quella cosa che molti individui usano per pulire i pavimenti: lo si immerge in un secchio dove si è precedentemente versata una mistura di acqua e un qualsiasi prodotto igienizzante, lo si strizza, lo si getta sul pavimento e con uno scopettone lo si passa in ogni angolo. Anche a casa nostra si usa il panno per i pavimenti. Il nostro ora è in bagno, da circa un mese e mezzo. La mia specificità mi condanna a sentire un penetrante odore di escrementi ogni volta che gli passo accanto. Il mio dubbio è questo: il turno della cucina, il prossimo, sta a uno di loro; sempre che lo faccia, perché la settimana appena passata stava all’altro di loro. Che lo ha sistematicamente saltato, così, come si presta pochissima attenzione all’opinione di un pressapochista. Ora, la persona cui spetta il turno di questa settimana ha due opzioni: o saltarlo per il fatto che l’ha saltato il suo predecessore, e questo implica che io dovrò pulire la cucina; o obbligare il suo predecessore a fare il suo turno. Dunque: o io dovrò passare un’ora a cercare di lavare l’illavabile panno che ogni giorno allerta olfattivamente il mio sistema fisiologico, o dovrò comperare un panno nuovo e farlo trovare al posto di quello vecchio, o chi farà il turno userà il panno vecchio intriso di merda e lo passerà su tutta la superficie del pavimento della cucina.
Dissolvenza.

Sono impalato ormai da quattro minuti di fronte allo scaffale di panni e detersivi del mediomarket. Non riuscirò mai a lavare il panno che sosta nel bagno. Ma io so anche che se ora comprerò quel panno e non lo userò io per primo, quel panno la prossima volta sarà da buttare via esattamente come il suo predecessore. Dunque o vivo nella merda, o spendo dei soldi che non dovrei spendere, o perdo del tempo che non dovrei perdere a lavare il vecchio panno, o spendo dei soldi che non dovrei spendere e perdo del tempo che non dovrei perdere a comprare il panno nuovo, pulire la cucina e lavare il panno.
-Pippicalzelùngheee. Pippicalzelùngheee.
Mi giro e vedo una dipendente sulla trentina, occhialuta, col camice bianco a righe celesti.
-Pippicalzelùngheee.
Guardo nella direzione in cui lei sta guardando e chiamando. Vedo una ragazza che non ho mai visto, anche lei con il camice dei dipendenti. Ha i capelli rossi rossi, legati in due trecce ai lati della testa. Stava armeggiando china di fronte a uno scaffale con dei cartoni di succo di frutta tra le braccia, li appoggia sul pavimento e si dirige verso la tipa che la chiama «Pippicalzelùnghe».
-Vieni qui, che ti faccio vedere alla signora Zanotti.
Mentre la ragazza si avvicina seria, con il capo leggermente chino, la dipendente con gli occhiali la indica con un movimento del mento all’anziana cliente che le sta accanto con la borsina da cui escono gli sfilatini e i sedani. Sorridendo, dice con un pesantissimo accento veneto:
-Io la chiamo «Pippicalzelùnghe».
È molto soddisfatta. Vado alla cassa con il sacchetto che contiene tre panni per il pavimento. Pago. Esco. Sul marciapiede passeggiano due ragazze. Hanno i capelli rasati ai lati, il resto è un poco colorato di verde e arancione e intrecciato in dreadlock, sono vestite di cose scure indistinte, una dice all’altra:
-Secondo te è più bella la rana o la scimmia?
Dissolvenza.

Sono al trentasei di via Zamboni, la biblioteca di lettere con sala studio e angolo ricreativo per gli studenti. Di solito ci si finisce a fare il caffè anche se non si sta studiando là. Sono passato per salutare Giovanni, un ragazzo che si è laureato con il mio stesso relatore. In attesa che gli scada il contratto da portiere e torni a occuparsi delle galline, quando ha un po’ di tempo libero va al trentasei a leggere il giornale o libri di logica, inglese o grammatica italiana. Quando entro è nel cortile che parla con una ragazza vestita di abiti scuri, tra il grigio e il nero. È truccata abbastanza pesantemente e porta i capelli a ciuffi un po’ arancioni un po’ verdi, mentre un altro po’ di capelli son rasati.
-Ti presento Francesca- fa Giovanni.
-Piacere Francesca- faccio io mentre ci stringiamo la mano.
Lei sorride lievemente e mi squadra dalla testa ai piedi, poi dai piedi alla testa. Le sorrido anch’io. Lei apre un poco la bocca e mi gaurda torva.
-Allora?- fa Giovanni.
-Allora sto ancora a pensarci e intanto cerco lavoro. Ma rimugino.
-Perché ancora non hai compreso l’inelluttabile destino di quel maleficio che è la vita.
Francesca ha un sussulto, come se qualcosa fosse improvvisamente entrato dentro di lei e ne avesse preso possesso. Questo qualcosa la afferra alle caviglie e da lì le scarica lungo le gambe e la spina dorsale una lunga e poderosa scossa che le inarca la schiena all’indietro, che le conquista la bocca trasformandola nell’organo di un raglio, che le prende il braccio sinistro lo porta alla spalla di Giovanni e le fa dire:
-Graaande Giovaaanni!- per poi riprendere con quel raglio. Io taccio un poco. Saluto Giovanni. Esco dal trentasei.
Dissolvenza

Nel silenzio della dormitudo guardo dentro la cucina. La cornucopia appesa per un manico alla maniglia della finestra si protende disperante e muta verso di me offrendo alla mia vista l’abbondanza di confezioni di pasta e bottiglie di plastica vuote, tutte rigorosamente libere di espandersi al massimo della loro vacua capienza, ornate di filtrini oleati di marrone. La cornucopia si offre disperata: sa che il miracolo sta per terminare e il suo meraviglioso sostenuto (diverso dal contenuto) si riverserà a terra. Guardo verso il cassetto dei sacchetti, senza domandarmi, come avrei fatto un tempo, il perché del loro mancato utilizzo: a certe domande non c’è risposta, e, ogni volta che ho provato a rivolgere la domanda, ho avuto come risposta un volto inespressivo, la bocca semichiusa, lo sguardo fisso al mio, come se la domanda l’avesse posta il mio interlocutore. La normalità non va domandata, solo nominata. Il nome crea la normalità. Prendo un grande sacchetto giallo dell’Ecu e ci infilo la cornucopia, finalmente libera di rilassare la muscolatura. Afferro il barattolo del caffè: è vuoto. Mi faccio la doccia, mi vesto, scendo. Faccio colazione al bar. Pago, esco e vado al mediomarket. Compro un pacco di caffè, così domani mattina ho il caffè. Vedo la dipendente veneta che parlotta con una signora quasi identica alla signora di ieri, ci sono altre due ragazze ma non vedo la ragazza con i capelli rossi. Torno a casa. Uno di loro sta parlando a un cellulare, dietro ad una porta chiusa. Lo sento dire:
-Perché lei viene dalla montagna. Io la chiamo Heidi. Heidi, la chiamo, ché viene dalla montagna.
Mi chiudo in bagno. Vedo il panno per i pavimenti nuovo: non è più nuovo. È stato usato per assorbire qualcosa di giallo, ed è stato lasciato là, col suo tumore giallo addosso, affinché esso penetrasse dentro di lui e lo impregnasse, perché ciò che è pulito è cattivo.
Dissolvenza.

Nel silenzio della dormitudo guardo dentro la cucina. Lo spettacolo è maestoso. La grande busta gialla dell’Ecu è stata modificata, come l’Arcadia che da nave è diventata astronave, come il template standard del mio blogg. Ora è un’immensa cornucopia solo per metà gialla, per l’altra metà multicolore. Sulla sua sommità spicca imperiosa, ancora piena di acqua lattea, una vaschetta di mozzarella di bufala, inserita nella composizione per mezzo centimetro di lembo della parte superiore, dal lato non aperto. Sciami di moscerini pattugliano le superfici del loro pianeta. Non è più questione di toccare la cornucopia: qui è il minimo colpo d’aria, ma che dico, la minima vibrazione, ciò che può provocare la caduta. Facendo scricchiolare le ciabatte sul pavimento mi dirigo verso il barattolo del caffè. Lo afferro, e mentre i moscerini mi ballano intorno lo ripongo. Scendo al bar. Mentre bevo il cappuccino comprendo per l’ennesima volta che considero l’intenzionalità nella maniera sbagliata: io considero l’intenzionalità qualcosa di intenzionale, ma non lo è più, non nel senso di «intenzionalità cosciente»: essa è sepolta, agisce a livello neurovegetativo e si concretizza nella meticolosa ma non saputa distruzione dell’ambiente circostante.
Dissolvenza.

Mangio qualcosa in via Petroni. Per il caffè vado al trentasei di via Zamboni. Il ragazzo all’entrata mi conosce, mi ha visto passare centinaia di volte, avanti, indietro, però gli mostro ugualmente il badge. Vado alla macchinetta del caffè, quella robotizzata, con lo sportello che scorre e la mano meccanica che esce e ti porge il caffè. Incontro una ragazza che conosco. Ha i capelli arancioni e verdi, qualche pendaglio, vestiti scuri tra il grigio e il nero. Noto che ho solo cinquanta centesimi e la macchinetta indica che non c’è più resto disponibile. Faccio:
-Ciao Francesca, sei in fila?
Lei si gira, mi guarda torvo, non dice nulla, si volta di nuovo verso la macchinetta e come se parlasse a lei dice:
-Sì.
-No, perché ho cinquanta centesimi e la macchina non dà più il resto. Tanto vale non sprecarli, passo avanti e ne prendo due.
Non mi guarda, dice:
-Allora?
-Ti sto chiedendo se devi prendere il caffè, dato che ho cinquanta centesimi e la macchina non dà più resto…
Si volta, solo un istante, poi guardandomi i piedi:
-Uffa ma che cazzo vuoi? Sono in fila, sì, allora? Non posso? Che cazzo c’è che non va?
La ragazza davanti a lei preleva il caffè ed esce dalla fila. Lei mette dentro i soldi.
-Ti sto dicendo che ti pago il caffè.
Lei sbuffa, fa un gesto di stizza, respira a fondo, con voce calma, scuotendo la testa, mi dice:
-Sei arrogante.
-Perché sono arrogante?
Lei continua a scuotere la testa. Aspetto che se ne vada. Offro il caffè al ragazzo che sta in fila dietro di me. Lui è contento.
Dissolvenza.

Quando esco dal bar vado al mediomarket, con l’intenzione di prendere un succo di frutta all’arancio. C’è sempre la dipendente veneta sulla trentina e ancora una volta non c’è la ragazza nuova.
-Ei tu- sento dire dalla dipendente veneta da dietro di me, -ei, vieni un attimo qui, su.
Mentre imbocco il corridoio dei succhi di frutta quasi vado a sbattere contro una ragazzina con la divisa dei dipendenti. La guardo: è la ragazza nuova, ma non ha più i capelli rossi: ha i capelli neri, lisci e corti. Mi guarda per un istante, poi abbassa gli occhi. E obbedisce agli ordini.
Dissolvenza.

Zion and I

Hai da dirmi, che mi guardi così? Che c’è? Non mi riconosci. No, aspetta, aspetta, lo immagino, sono io che ho la faccia di quello che non ti riconosce. Quando si è rotto? Quando è stato che hai smesso di essere mio e io tuo? Deve essere stato in un momento sottile, in un momento nel quale mi sono perso a sognare primavere tra palazzi rossi, ad ascoltare la nostra musica come fosse solo mia o anche di altri posti. Quel muso duro lì, come se me l’hai giurata. Come se mi hai giurato di far finta di niente. Come volessi allontanarti guardando altrove, ritrarti facendo finta di nulla aumentare, questa distanza che ci separa. Non cadiamo più sulle stelle, Caterina è cresciuta, Chiara si sposa e non con quello per cui mi ha lasciato, a che sarà servito, poi, quel giovane olocausto cui tu assistetti, che tu segretamente celebrasti, come domini ogni cosa e ogni gente di qua. I fuochi hanno un altro odore, anche l’impianto è diverso, conosco la metà della gente. Qualcosa dentro ai miei piedi ha ancora bisogno di affondare nudo in quest’oceano di molecole, mondi ultimi, numeri primi, la grande mamma fatta di atomi che ha plasmato, educato le piante dei miei piedi; la mia testa deve essere immersa in te, i miei occhi guardare i raschiaterra e i paguri sul fondo, sul nostro pianeta giallo-verde. Quest’alba è veloce ed eterna, viaggia troppo. Che hai da dirmi? Dimmelo, prima che quest’alba salga su in alto e io volti le spalle, prima di dover aspettare il mio prossimo cosciente estraniamento di fronte a te, dimmelo ora, perché ho paura ora, dei miei piedi e delle mie mani, che non sono più palmati, del mio stomaco che non succhia più salmastro, di me riciclato creatura di smog e cloro. Solo ora, accendi il magnete, rendimi grave verso di te, risucchiami finché sono qui, prima che io esca di nuovo da me. Rotolami dentro di te. Nella tua gravità che è l’unica vera per me. Rotolami nel tuo ventre, dove i su e i giù sono veri solo un po’. Perché fuori da te io non ho più avuto un verso. Non so come mettermi.