Se tu mi lasciassi dormire

È uscito Funambole di Isabel Farah (Marco Del Bucchia Editore).
Sedici monologhi: Medea, Penelope, Arianna, Clitennestra, Leda, Filomela, Egle, Giocasta, Ersilia, Andromaca, Euridice, Frine, Ermione, Rossane, un’amazzone, Antigone.
Un estratto da “Medea” è stato pubblicato su Scrittori Precari.
Qui ho pubblicato “Penelope” in versione integrale.
Qui sotto pubblico “Ermione” in versione integrale.
Funambole di Isabel Farah si può ordinare da qui.
Venerdì 14, alle 18.30, Isabel, Ilaria Giannini e io lo presentiamo à La Cité, a Firenze.

Ermione

Isabel Farah - Funambole“Sei sveglia?”
“No”.
“A cosa pensi?”
“No, sto dormendo. Non penso a nulla”.

Prendo le foglie da terra, quelle più rosse, non ancora secche. Le raccolgo tutte. Mi vesto d’autunno, poi mi lego un lenzuolo bianco intorno al petto e mi metto al balcone. Verifico che il bianco che ho addosso sia più bianco dei panni stesi. No, i panni sono più bianchi e svolazzano e profumano. Allora faccio a cambio. Ma addosso a me, mi sembra, il bianco diventa giallognolo. Il profumo addosso lo sento forte; mischiato al muschio bianco, c’è l’odore della mia pelle. Insieme non mi piacciono. Mi tolgo il lenzuolo di dosso, allargo le braccia, lascio che il vento mi faccia diventare un aquilone, chiudo gli occhi. Mi sento lei.

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Prose Combat

Simone Ghelli - Voi, onesti farabuttiHo già scritto una volta della mia difficoltà a parlare delle opere di Simone Ghelli, eppure bisogna parlarne, perché Voi, onesti farabutti è un romanzo importante e bisogna dirlo. E però non riesco nemmeno a scegliere un passo da citare per mostrare almeno un esempio di questa scrittura straordinaria; ogni volta che dico “eccolo”, immediatamente sento di fare un torto al resto del romanzo. Forse è anche per questo che, nelle loro (ottime) recensioni, Vanni Santoni di citazioni ne ha portate tre, e Matteo Pascoletti otto. Sono citazioni la cui presenza è più che motivata dai contenuti che Matteo e Vanni hanno scelto di esporre, ma ho l’impressione che di fronte a questo testo si senta forte il bisogno di mostrare al lettore della recensione di cosa si sta parlando, di porgergli un esempio concreto di questa scrittura. Andate a leggerle, quelle recensioni. Di mio vi dico che la lingua di Ghelli è magra e pregna: è stata immersa nella materia e poi strizzata. E rotola: leggere Voi, onesti farabutti è fare l’esperienza di un flusso ossessivo, inarrestabile, e nel contempo accorgersi che è un problema tuo, perché il narratore è saldo, nella tempesta: con quella che per te è una valanga, lui ha imparato a conviverci, a modularla, a dominarla, a farne un potere; è diventata la sua voce: è un mangiafuoco, un fachiro, un’entità in grado di lasciarsi attraversare da elementi che distruggerebbero qualsiasi altra creatura dotata di un’attività psichica. E ti rendi conto che non è altro che il coraggio di uno che contemplava il suo complesso di rocce, e che poi un giorno ha deciso: si è levato in piedi ed è andato via; quando è tornato, aveva con sé un mucchio di corde: ha legato le corde attorno alle rocce, una per una, poi si è voltato, e gettandosi le corde sulla spalla e stringendo tutti i capi tra le mani, ha cominciato a tirare, a camminare trascinando le rocce con sé, con il suo corpo magro. Olio e vino, humus e sangue. Le visioni salgono dai buchi della terra: ho visto una famiglia antica in guerra, asserragliata tra le stoviglie sotto le raffiche della televisione che ogni giorno invade la Polonia. Voi, onesti farabutti è un rifiuto della cattiva astrazione, è il vivere nella carne il riflesso devastante del macrosistema. Un sasso di simboli e sensi che sale dal fondo del corpo, da ciò che lo costituisce e lo trascende, tellurico, a interpretarlo non mi ci provo nemmeno: quando le botte mi arrivano così, il lavoro lo fanno al di sotto della mia coscienza. Lo assumo per come è, e attendo che qualcuno che ne sa a pacchi si prenda la briga di schiavardare questo ordigno.

Risposta al secondo luogo del nulla

di Stefano Sanchini

Stefano Sanchini è stato redattore della rivista di poesia e realtà “La Gru”, sue poesie sono apparse in diverse antologie e riviste, ha pubblicato: Interrail (Fara, 2007), Via del Carnocchio (Thauma, 2010), Corrispondenze ai margini dell’Occidente (Effigie, 2011) e La casa del filo di paglia (Sigismundus 2013).

Qui c’è il secondo luogo del nulla.
Qui invece il primo, e qui il terzo.

Caro fratello del cosmo, qui sulla Terra siamo nel pianeta a quattro dimensioni, poiché tre sono nello spazio e la quarta dimensione è il tempo. Il tempo che corre verso chi sa quale direzione, ma che ormai sappiamo in accelerazione come le innovazioni, che tenderanno ad essere infinite nel millesimo di secondo. Dunque ci ritroviamo a rincorrerlo con tutte le nostre degenerazioni, in questa follia in noi e in ciò che ci è intorno, ma prima che Cronos divori tutto questo, restano dei segni e delle rovine ancora da codificare e forse questo è il modo per ritrovare La Via che ci permette di uscire dal collasso ed essere, come l’essere che è all’origine. Come la teoria del racconto in cui sviluppata la storia, si finisce ritornando al suo inizio, è senz’altro a questo punto che si trova la storia dell’umanità in questo momento. Si chiude qui un ciclo di 26000 anni, finisce l’era del ferro e il Kalijuga. Rileggendo così la tua mappa astrale dei non luoghi, le cose mi si svelano più chiare. Ripercorrendo infatti la linea da te tracciata, dalla vela anti-materia dell’Ipercoop fino al campus, nel quale ora ti vedo seduto ad osservare quella vela che ti osserva, come un iper-poliziotto con due o, due occhi, che ti controlla nel tuo fermarti e prendere tempo, il mercato che crolla eppure controlla. Come vedi è spiazzato, cioè senza piazza, è sotto shock, non sa quale sia il tuo desiderio, non può più venderti la sua anti-materia.

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Piano A

Il commissario Luca Palermo guida con la mano sinistra, con la destra si prende a schiaffi la fronte, e si dà dello stupido, e non riesce a trattenere un sorriso. È un tardo pomeriggio di ottobre. La Yaris fila sull’asfalto perfetto di una strada di periferia. Attorno il tramonto getta un velo rossastro sul cemento nudo che chiude i terrapieni, sui blocchi forati, sulle gru e i caterpillar, sui nastri di plastica tesi tra una spranga all’altra, che vibrano al vento leggero. Ogni tanto si leva un palazzo già realizzato, un supermercato dalla sigla sconosciuta, un’edicola dispersa nel nulla.
Palermo scuote il capo mentre ripensa alle parole pronunciate da Giancarlo Giliotti e Maria Montesi tre mesi prima.
«Io queste cose, stare in televisione, parlare del dolore, non le so fare», aveva detto lui, «non le ho mai rette quando le facevano gli altri, non le capivo».
«Non siamo stati capaci di andare ai telequiz per provare a campare, s’immagini lei, Commissario» aveva fatto la moglie.
«Però», aveva aggiunto Giliotti allargando le braccia, «se serve a far appassionare quanta più gente possibile alla storia di Franci, lei capisce: è questione di vita o di morte». […]

Nella rubrica Speedromance di Ziguline, a cura di Patrizio D’Amico, si può leggere il mio racconto Piano A.
L’idea di base di Piano A è dell’amico Luca Palermo, per questo il protagonista del racconto si chiama Luca Palermo.

La Foglia

Questo racconto apparve per la prima volta sul Resto della Pesaresità, poi fu rielaborato per WebSite Horror, un progetto di Marco Candida, e infine fu pubblicato su Orbite Vuote, l’antologia horror di Intermezzi Editore.
La foto qui sotto è di Valentina Mattei.

Accadde nel pomeriggio del 14 aprile, venticinque anni fa. Eravamo nella sala giochi della paninoteca La Boa, sul lungomare di Pesaro. Ale stava giocando a Ghosts ’n Goblins. Io ero accanto a lui.
Mi disse:
– Oh! Lo sai che giorno è oggi?
– Che giorno è oggi? – feci io.
– Non ti ricordi cos’è successo l’anno scorso?
– No.
– Dai: il militare che hanno trovato morto sulla riva del Foglia.
– Non era un militare, era un drogato.
– Era un militare, e lo hanno trovato morto, e senza i piedi.
– Seee, senza i piedi…
– Giuro, – Ale staccò le mani dal videogioco, alzò la sinistra, pose la destra sul petto, riprese i comandi, – senza i piedi.
– Ma non dire cagate, – dissi, – era un drogato che è morto per la droga.

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Interludio sulla compilazione del database di un call center in caso di morte

Il breve pezzo letto alla maratona di chiusura del PerepePè – che è poi una versione modificata di questo. Gli altri tre pezzi letti al PerepePè sono questo, questo e questo.

Il software che usavamo al call center per effettuare le chiamate girava su windows 98, e aveva la faccia, nel quarto del monitor in alto a sinistra. La faccia, che era fatta di quadrati molto grossi, aveva tre espressioni: in attesa, risposta, e numero non funzionante. La faccia in attesa era apatica e gialla; la faccia da risposta era verde, aveva la bocca aperta, sorridente, come chi stia parlando con un amico caro; generava una certa dissonanza cognitiva quando chi aveva risposto al telefono ti stava augurando la morte; la faccia del numero non funzionante era rossa e malinconica.
Dato che lavoravamo cliccando sui numeri di un database estratto dall’elenco telefonico del 1996, ed era il 2007, nostro compito era anche aggiornare il database segnalando quali di loro non fossero più in vita. Gli esercizi, dico, le ditte, cioè spesso gli uomini-ditta, titolari di ex imprese casalinghe, vetrerie nella rimessa, assemblaggi di pc nello scantinato. E in effetti accadeva spesso che la faccia del software diventasse verde e sorridente, e rispondessero le mogli degli uomini-ditta: esperte nel rispondere al telefono: «No, non c’è Gaetano. Dov’è? È al campo santo», espressione che segnala la tendenza della metafisica locale ad attribuire primato al corpo nell’individuare la persona.

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Il cinema del padre di Alvise (estratto)

[…] Sapevo però che da San Marino il padre di Alvise tornava con decine di videocassette VHS, perché questo Alvise lo diceva sempre, e citava Totò, Alberto Sordi e Lino Banfi e diceva che il cinema italiano era il migliore del mondo. Alvise era molto contento di essere italiano. Quando andavamo in pizzeria, Alvise masticava lentamente e mi scrutava; finito di mangiare, alla terza birra, cominciava a spiegarmi quanto fossero bravi gli italiani, tutti, specialmente suo padre. Gli italiani erano emigrati e avevano costruito il mondo, Al Capone, Vito Corleone, Cristoforo Colombo, Alberto Sordi, Roberto Baggio, gli italiani erano creativi e furbi e accoglienti, e poi l’impero romano aveva costruito Roma, e i templi in Sicilia, e le piramidi, e aveva dominato quei coglioni degli inglesi. E qui gli venivano gli occhi lucidi, mi fissava e diceva: «Ti rendi conto? L’impero romano. L’impero romano. Ha dominato quei coglioni degli inglesi. Capisci? Hai capito?» […]

Sull’ultimo numero della rivista “Close Up – storie della visione” (qui il sito) c’è un mio racconto intitolato Il cinema del padre di Alvise.

E io oggi pago il fottuto viaggio di Ulisse

È uscito Funambole di Isabel Farah (Marco Del Bucchia Editore).
Sedici monologhi: Medea, Penelope, Arianna, Clitennestra, Leda, Filomela, Egle, Giocasta, Ersilia, Andromaca, Euridice, Frine, Ermione, Rossane, un’amazzone, Antigone.
Un estratto da “Medea” è stato pubblicato ieri su Scrittori Precari.
Qui sotto pubblico “Penelope” in versione integrale.

Funambole di Isabel Farah si può ordinare da qui.

Penelope

Isabel Farah - FunamboleNemmeno un angolo in cui poter liberamente urlare dentro. Osservarmi spegnermi, regalarmi un funerale interiore degno dell’amore che mi voglio. Stipata in un tavolo perennemente troppo piccolo; respiri di troppo inondano l’aria. Il tempo, il tempo, il tempo di osservare i movimenti frenetici e senza senso del respiro del mio cuore, di me, del mondo che sono io, stando ai filtri.
Nemmeno il tempo per rimproverarmi dell’odio dilatato che provo ora, nemmeno lo spazio per ricordarmi che devo stendermi e che mai devo diventare nera. Nemmeno il buio per potere piangere la mia era, la mia personale era: a Penelope non viene dato lo spazio per dire a Ulisse che non sarà lei a pagare l’angoscia del suo viaggio. Penelope paga, e basta. Omero ha deciso così; Omero e Ulisse. E dio e l’uomo. E il creatore e il primo creato. Privilegiato. E la donna. E io. E Penelope. E Penelope, che non ha nemmeno la facoltà di odiare, che non ha nemmeno il coltello di Clitennestra, che non scopa come Elena, che non punisce ciecamente: che non è Medea.

Chiudi la porta. Portati via la porta. Non respirare più. Se vorrai morire, non avvisarmi.

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Terzo luogo del nulla

Il terzo dei tre pezzi su Pesaro che ho letto a Va bene uguale, il reading di domenica 30 settembre organizzato dal Quilombo nell’ambito di PerepePè.

(Qui il primo luogo del nulla, qui il secondo luogo del nulla)

Era un tardo pomeriggio d’inverno, un pomeriggio di pioggia. Io e quella che allora era la mia compagna eravamo andati all’Obi perché ci stavamo costruendo la casa dove volevamo abitare.
Camminavamo nei corridoi dell’Obi, e io pensavo: qua c’è un sacco di roba, deve esserci anche quello che vogliamo. Eppure, per quanti oggetti e parti di oggetti io potessi vedere, quegli oggetti mi sembravano tutti uguali, e non riuscivo a trascinarli fuori da lì e figurarmeli come sarebbero stati là dove avremmo dovuto metterli; all’improvviso non capivo a cosa potessero servirci. Guardavo le persone tutte intorno a me e pensavo: hanno una forza immaginativa portentosa, sanno separare uno di questi oggetti da tutti gli altri e immaginarlo in casa propria, o nel proprio giardino, e capire come sta, se gli piace, se gli dice, se c’entra e anzi se contribuisce a creare la suggestione che vogliono, l’immaginario che vogliono, la coerenza e il significato che cercano. E del resto, consideravo, cosa c’è di più facile del prendere un pezzo da un non-contesto e trasferirlo con la fantasia in un ambiente coerente, ispirato a un immaginario? Perché io non ci riesco?
E compresi cosa mi stava succedendo: per me l’Obi era già un contesto, incarnava un immaginario, coerente, totale: l’immaginario della fine degli immaginari, la fine della storia nella sua fase definitiva, il nulla realizzato, ovvero il nulla che non sa di essere nulla. Un luogo pazzesco, l’Obi, che distrugge le cose. Una distruzione al contrario, una distruzione permanente prima che le cose nascano, cose che forse non nasceranno mai e resteranno lì nella loro distruzione, smontate, decontestualizzate, senza la funzione che si suppone debbano avere, ma nella funzione di mostrarsi, esempi di se stesse.

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