Ecco fera faccia di Gwar n.4

Pur essendosi autoescluso per non sentirsi più escluso, c’è ancora chi lo stana appositamente per escluderlo. Un telefono gli vomita addosso paccottiglia sociale su sue presunte colpe e libertà e fortune* che ha già discusso troppe volte per ritenerle solamente errori concettuali e non anche e soprattutto, chi le declama, un gendarme ideologico del sistema. Goebbels ha vinto la guerra, pensa, e non fa prigionieri, pensa. Per punirsi va a letto senza colazione meditando la considerazione di Simone Weil:
«Spesso, in quello stato, ho ceduto almeno alla tentazione di dire parole che potessero offendere. Obbedienza alla pesantezza. Il massimo peccato. Si corrompe così la funzione del linguaggio, che è quella di esprimere i rapporti fra le cose».

*in italiano nel testo

Ecco fera faccia di Gwar n.3

Si sveglia tardi, ma tutto sommato di mattina e dopo aver dormito di notte. La cucina è una devastazione, il frigo è completamente vuoto, sul letto dormono da giorni accanto a lui decine di libri, il caos regna ovunque. Prende su la maglietta dalla quale si alza una nube di polvere. Comincia a ricostruire la sua casa. Dice che sarà l’estate più bella della sua vita.

Agli sgoccioli

Quando mio padre era agli sgoccioli siamo andati in ospedale a riprendercelo perché morisse in casa. Mia madre lo ha voluto tutto per sé, è stata una settimana senza chiudere occhio. Io e mia sorella l’aiutavamo svegliandola quando si addormentava, eravamo poco più che ragazzini. L’ultimo giorno in cui è stato in grado di andare al bagno con le sue gambe, mio padre ci ha chiesto di lasciarli soli. Tre giorni dopo, nel suo ultimo sprazzo di lucidità, le ha messo un braccio intorno al collo mentre lei gli umettava le labbra e le ha detto «muori con me».

Mauro Covacich, Prima di sparire

Ecco fera faccia di Gwar n.1

Rinuncia a un sonno cristiano e con autoriprovazione si abitua a dormire dalle otto del mattino alle tre del pomeriggio. Dopo aver letto qualche pagina di Lem si addormenta. Sogna di aver comperato cimeli da una trasmissione che si occupa di misteri ed evidentemente anche di televendita: nello specifico ha acquistato i cadaveri di storici assasini seriali tra i quali un tizio considerato un vero uomo lupo. Ne ha appoggiati un po’ a casa dei suoi, riempendo il salotto con una valigia contenente i resti della Cianciulli e due barelle coperte di rozzi plaid, una delle due recante il corpo imbalsamato di Pacciani. Un po’ di altri cimeli ne ha a casa sua. Sua madre è contrariata, trova tutto questo di pessimo gusto (questo, attraverso una catena di concetti mediata dall’aggettivo infelice, gli ricorda che nell’horror giapponese una mancata sepoltura spinge spettri a tormentare); suo padre vorrebbe sembrare razionale, ma non sfugge la sua spaventata perplessità di fronte all’acquisto, e gli domanda, in ogni caso, se abbia tenuto le ricevute, qualora si manifestassero accuse di illecito possesso. Lui ci pensa, effettivamente non ricorda, gli pare proprio di no. Aggiunge però che il Signor Carlo Lucarelli è persona perbene e, qualora si presentassero problemi, non mancherà di testimoniare il regolare acquisto. Per sottolineare la sua sicurezza sorride sornione e batte una mano sulla valigia della Cianciulli (sollevandosi assieme alla polvere, l’horror giapponese aleggia nuovamente). In silenzio, mesto, considera che sarebbe bene liberare casa dei suoi – e al più presto possibile – da quell’insepolta compagine, anzi: pensa che mai avrebbe dovuto portarcela. Tuttavia non ha altro spazio, il danno ormai lo ha fatto: ne piange. Si sveglia. Legge Lem.

I forni

Mia madre mi dice che manca un po’ di roba. Mi chiede se passo a fare la spesa prima di tornare a casa. Così vado. Il discount è pieno di gente, come sempre. Prendo l’aceto, la carta igienica, poi mi metto a fare la fila al banco del pane.
«Dice che dentro quell’appartamento ci vivono pure in quattordici, quindici», dice una signora davanti a me. «Mamma mia per carità. Pensa che schifo», fa un’altra.
Intorno la gente ci urta con i carrelli. Qualche mamma dice al figlio di stare buono. Ci passa accanto una carovana di zingari, come se noi non ci fossimo. Parlano, sembrano fare la spesa proprio come noi, tirano giù i barattoli dagli scaffali, leggono le etichette, confrontano i prezzi. Poi però dicono cose che noi non possiamo capire. Un’altra lingua. Scorrono in un’altra corsia, quella con i surgelati. Li sentiamo ancora ma non li vediamo più.
«Io, per carità, non è cattiveria. Tutti c’hanno diritto di vivere. Ma questi no».
Mi sono già rotto le palle di stare in fila. Comincio a sbattere i piedi per terra, prima piano piano poi sempre più forte. Una signora si gira e mi guarda. Mi fermo.
«Ma se uno andasse lì con un bastone e li pigliasse a mazzate?», dice l’uomo dietro al bancone mentre strappa lo scontrino adesivo dalla bilancia e lo appiccica sulla carta marrone della busta del pane.

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Nei giorni 2008 (ri-editing)

It’s yourz
The world in the palm of your hand
It’s yourz

Wu-Tang Clan

Era venuto fuori in autobus, alle sei e tre quarti del mattino, mentre andavamo a prendere il treno per Firenze.
Mi aveva domandato:
– Hai spento il fornello?
Lì per lì non avevo capito di cosa stesse parlando. Il fornello. Rimase sospeso in aria senza alcun significato.
– Ah –  dissi poi, – il fornello! Oddio, no. Cioè: non no: non mi ricordo.
– Come non ti ricordi.
Rimanemmo lì a guardarci, aggrappati ai tubi dell’autobus, nella luce blu del primo mattino.
– Prova a ricordarti: devi ricordarti.
– Oddio, non mi ricordo, veramente.
– Cavolo, –  ridacchiò lei – non l’hai chiuso.
– No, no. È solo che non mi ricordo. Vabbè. Non mi ricordo nemmeno di aver messo i pantaloni, ma non sono in mutande. Non preoccuparti, su.
Ma ero io quello preoccupato.

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Kraftwerk Tapes

Per accertare ogni anno che molti di loro non fossero più in vita, li chiamavo ogni mattina cliccando sui numeri di un database estratto dall’elenco telefonico del ’96. Gli esercizi, le ditte, dico. Spesso – ex imprese casalinghe: uomini-ditta – rispondevano le vedove – vedove di uomini-ditta: esperienza nel rispondere al telefono – «no, non c’è Gaetano: è al campo santo», espressione tipicamente pesarese che segnala la tendenza ad attribuire primato al corpo nell’individuare la persona. Quando qualcuno rispondeva, sul monitor la faccia fatta di quadrati apriva la bocca come se stesse parlando, e sorrideva. Altre volte il computer componeva numeri scomparsi, numeri di cubi di cemento vivo gettati nei cerchi più esterni della città e della campagna, strisce di cerata appese a cancelli elettrici, cubotti privi di piastrelle, tirati su dove prima c’era un rigagnolo o un acquitrino – è una zona paludosa questa –: il segnale correva sulle colline, tra le falegnamerie a conduzione familiare, le serre, i camini e le galline, per trovare solamente i locali ormai deserti: contenitori abbandonati di vasche di dischetti da 3½, pezzi di mac classic o di ibm pre-Win98, vecchie stampanti a getto di inchiostro, basi orfane dei cordless. Allora il segnale mi tornava ansioso con un tu-tu-tu, e sul monitor la faccia fatta di quadrati aveva uno sguardo perso e malinconico. Ma c’erano anche i telefoni che attivavano altri telefoni: per il computer erano risposte, la faccia fatta di quadrati apriva la bocca felice, solo che al posto di una voce che diceva «pronto?» nella cuffia sentivo un altro telefono squillare diversamente dal primo: uno squillo allegro e vetero-elettronico: la traduzione che il primo telefono mi faceva della voce del secondo telefono: erano i telefoni che si attivavano da un ambiente all’altro cercando il loro padrone; immaginavo il loro rincorrersi in spazi vuoti e placidi, il raggio del sole che da una finestra quadrata illuminava scrivanie o telai o tecnigrafi o pialle bicombinate. “Attivo” segnavo in questi casi nel database. “Defunto” in tutti gli altri.

Anni '90

Cinque minuti dopo, stanno già vagando impazziti per le stradelle del triangolo Santa Croce-piazza Sant’Ambrogio-arco di San Pierino.
Sbucano in una piazzetta. Ci sono dei grossi conchini di cemento bianco, paiono meduse lucenti in un mare di notte e liquido amniotico. Il vocio della gente da un pub in fondo è una cascata d’acqua gialla e magenta, parte coerente del paesaggio.
“È FANTASTICO!” grida il Mella, e Iacopo vorrebbe affiancarsi a lui nel godimento di quelle meraviglie, ma c’è Mimmo che panica. Seduto su uno di quei conchini, strepita paranoie: “Perché facciamo sempre quello che dice Iacopo? Non ha senso! Decidiamo noi dove andare!”.
“Non è che ‘stiamo facendo quello che dico io’: è solo che io sono, diciamo, quello a cui questi trip hanno fatto meno effetto.”
“Quali trip?”
“Dai, quelli di Nikko…”
“Aspetta, ASPETTA. Ho capito. È un complotto.”
“Ma cosa dici!” fa Iacopo con una faccia serissima.
“Mimmo, davvero, ma che dici!” aggiunge Sandrone. Ma è come ripescare un forasacco nell’orecchio di un cane. Non importa quanto ti sforzi, lo spingi sempre più giù.
“Che dico? Che dico?” Mimmo si alza, l’occhio lustro, minaccioso, offeso: “Siete tutti d’accordo tra voi!”.
Il Mella s’allontana di tre passi o quattro, quello insiste:
“Anzi! No! Ora capisco! Sto morendo! Aaah! Siete dei dottori! Oddio!”.
“Ma dai! Sono Iacopo, c’è tuo fratello e il Mella, siamo a Firenze! Macché dottori!”
“Ah no-o? E allora, che cos’è tutto questo sangue?”
Il Mella alza gli occhi al cielo, poi cerca quelli di Iacopo. Non hanno bisogno di dirsi niente. Erano convinti che scene simili potessero esistere solo nei più biechi opuscoli antidroga.
Mentre già lo danno per perso, Sandrone, toccando corde che solo un fratello conosce, riacchiappa il forasacco. O forse è solo un momento di quiete nella bufera. O l’occhio del ciclone. Fatto sta che Mimmo si calma, si scusa addirittura, assume un’espressione del tutto normale: “Accidenti”, fa, “per fortuna mi è passata”.
Regna per un po’ una certa sobrietà sconnessa. Sandrone propone di andare a bere qualcosa: “Mi pare che qua dietro ci sia una via piena di locali”.


Vanni Santoni, Gli interessi in comune

Sabotage

Questo post era stato scritto in forma di dialogo, ovvero nella forma in cui sovente su questo blog vengono rappresentate le faccende che riguardano la logica e il linguaggio. Poi ho pensato che, essendo queste delle raccomandazioni al lettore che riguardano il modo di leggere i dialoghi (e i racconti in generale) ospitati su questo blog, è meglio che siano scritte in forma differente dal dialogo, onde limitare il pericolo che siano esse stesse oggetto della lettura scorretta di cui spesso sono oggetto i dialoghi, lettura scorretta che queste raccomandazioni al lettore vorrebbero appunto prevenire.

1. Il dialogo parla forse anche di te.
Se sei un conoscente dell’autore del dialogo e sei sicuro, malgrado le innumerevoli sbornie che ti concedi, che l’autore non abbia mai avuto con te una conversazione come quella che stai leggendo, non dedurne per ciò stesso che il dialogo non ti riguardi per nulla. Il più delle volte il dialogo denuncia una fallacia logica: non è attribuendo la possibilità di incorrere in quella fallacia logica esclusivamente al personaggio che la enuncia nel dialogo che da quella fallacia tu necessariamente sarai immune; né, peggio, leggeresti in modo corretto il dialogo stigmatizzando il personaggio non per la fallacia logica di cui è enunciatore ma semplicemente per quello che è (uno che non sei tu perché quella conversazione non l’hai mai avuta, o un interista mentre tu sei milanista o uno di destra mentre tu sei di sinistra o un interista mentre tu sei di sinistra e così via). Chiediti, in caso, quanto sia la fallacia a determinare il carattere, la maschera, il tipo del personaggio, a esserne la definizione (ad esempio: è interista perché chiamiamo “interista” uno che tifa così e così, oppure è di sinistra perché diciamo che è “di sinistra” uno che pensa cosà e cosà).

2. Il dialogo non parla di te.
Se sei un conoscente dell’autore del dialogo e il dialogo, mettiamo, parla di “linguaggio come malattia”, e, mettiamo, il dialogo è rappresentato mentre avviene al telefono, e tu hai avuto, mettiamo, una discussione al telefono con l’autore del dialogo incentrata su tutt’altro rispetto al contenuto del dialogo, non credere che il dialogo parli non di quello che c’è scritto nel dialogo e che invece parli di quello che non c’è scritto e di cui hai parlato con l’autore al telefono. Non crederlo, altrimenti fai come qualcuno che ultimamente è passato qua sopra e ha sentito solo “…knife…” come in Sabotage di Hitchcock ed è esploso lanciando accuse e/o maledizioni e/o commenti farneticanti che, almeno in un caso, ho provveduto a cancellare per fare un favore più al commentatore che al sottoscritto.

3. Il dialogo parla di te?
Se nel dialogo o in qualunque altro post ci si riferisce a personaggi di una qualche doppiezza tipo “quelli che hanno fatto x perché hanno ceduto alle pressioni” o “quelli che fanno finta di avere la coscienza a posto ma non ce l’hanno” e, senza che sia stato fatto il tuo nome o senza che qualcuno ti abbia preso a esempio come persona che si trovi in quelle condizioni, tu lamenti una presunta accusa che ti verrebbe mossa e/o inveisci senza argomentare all’indirizzo dell’estensore del post, sappi che in parecchi crederanno di poter riconoscere in te un soggetto che si trova nella condizione cui il post fa riferimento.

Naturalmente le tre raccomandazioni su esposte valgono anche per l’interpretazione delle tre raccomandazioni su esposte.